IL TIMORE DI DIO
Il timore di Dio; un timore che non va equivocato. È diffuso un convincimento errato secondo cui l'Antica Alleanza sarebbe l'Alleanza del Timore, mentre la Nuova Alleanza sarebbe l'Alleanza dell'Amore. Fare questa grossolana distinzione significa non aver compreso affatto e condannarsi a continuare a non comprendere che cosa sia il -timor di Dio- nell'Antico Testamento, un timore che lo stesso S. Paolo (1) recupera mettendolo in relazione con l'amore. Ciò che la Bibbia chiama «timor di Dio» dovrebbe venire identificato con la religiosità primaria, col senso del sacro, con la percezione del divino, distinguendone i vari livelli.
Il senso del sacro è una percezione piuttosto generica, per certi versi alquanto indefinita, e accomuna lo stupore per la vita, la paura della morte, la sospensione davanti alla precarietà e mutevolezza degli esseri. Oltre questa prima fase si comincerà a parlare di senso del numinoso quando s'inizierà a individuare non potenze generiche, ma esseri che incarnano le potenze di fronte a cui ci si stupisce o si prova spavento. Un terzo livello, che chiameremo senso del divino, sarà quello in cui gli esseri che incarnano le potenze anzidette verranno individuati come personali.
Tracce del senso primario del sacro nonché del senso del numinoso, oltreché, com'è ovvio, del senso del divino, si riscontrano anche nella Bibbia: si pensi ad esempio all'episodio inquietante e sconcertante della circoncisione di Mosè o a quello del serpente di bronzo.
Quando dunque si parla di «timor di Dio» si parla di questi sentimenti e atteggiamenti primari dell'uomo e del loro sviluppo, in rapporto all'oggetto adeguato d'essi, che è il Signore. «Timore» dunque non significa affatto semplicemente "paura", significa invece nel contempo stupore, meraviglia, constatazione dell'unità dell'essere.
In realtà è impossibile pervenire all'amore di Dio se non temendolo, se non cioè arrivando al rapporto col sacro per lo stupore che esso suscita, nell'atto d'accorgersi che l'armonia, la vita, la bellezza, l'esistenza sono dono, sono dati.
Per contro, anche nell'Antico Testamento si parla di amore di Dio, in senso sia oggettivo che soggettivo; quindi l'amore di Dio non è una novità del Nuovo Testamento. Tuttavia finalmente nel Nuovo Testamento, per l'Incarnazione, cioè per la comunione personale tra Dio e l'uomo, questo scambio d'amore diviene realmente possibile; mentre in precedenza rimaneva una barriera fra umanità e divinità, nel momento in cui tale barriera crolla ecco che l'uomo può vivere l'esito del proprio desiderio e arrivare quindi ad un amore reale nei confronti della divinità.
NOTE:
(1) Per cogliere questo aspetto della riflessione teologica paolina occorre leggere con la dovuta attenzione la pericope dedicata alla morale domestica in Ef. 5,21-33, con particolare attenzione all'ultimo versetto, che correttamente andrebbe tradotto: «In conclusione anche voi ciascuno per quanto lo riguarda ami la propria donna come se stesso e la donna tema l'uomo». Infatti «se del "timore" si assume l'accezione corrente secondo cui sarebbe sinonimo di "paura", a parte ogni considerazione dipendente dalla nostra recente impostazione socioculturale, non si vede come tale sentimento potrebbe venir indicato come atteggiamento della Chiesa nei confronti del Cristo, che è il calco ed il modello
dell'atteggiamento della donna nei confronti dell'uomo; né si vede come questo timore-paura possa venir proposto sia alla Chiesa che alla donna come corrispettivo di quanto sopra veniva proposto a Cristo e in Cristo all'uomo: "amore e cura" (cfr. Ef 5,29). Non basta a risolvere il problema nemmeno la traduzione attenuata del testo greco proposta
dalla versione ufficiale: "sia rispettosa": a parte il fatto che non traduce il testo greco cui è in sostanza infedele, un'espressione di questo tipo finisce per non dire praticamente nulla. Verosimilmente per intendere ciò che vien comandato alle mogli nei confronti dei mariti è necessario riandare all'accezione sacra del "timore" così come emerge dagli scritti sia veterotestamentari che neotestamentari, accezione che è in buona sostanza assai prossima a quella che con linguaggio moderno, mutuato dallo studio della storia delle religioni, potremmo definire "senso del sacro" o meglio ancora "senso religioso", che è cosa affatto diversa dalla paura o dallo spavento» (C. Rusconi, Una sola carne, Rimini 1992, p. 100).
Tratto da il "grande pedagogo" (pagg. 140-141) di Carlo Rusconi
Il senso del sacro è una percezione piuttosto generica, per certi versi alquanto indefinita, e accomuna lo stupore per la vita, la paura della morte, la sospensione davanti alla precarietà e mutevolezza degli esseri. Oltre questa prima fase si comincerà a parlare di senso del numinoso quando s'inizierà a individuare non potenze generiche, ma esseri che incarnano le potenze di fronte a cui ci si stupisce o si prova spavento. Un terzo livello, che chiameremo senso del divino, sarà quello in cui gli esseri che incarnano le potenze anzidette verranno individuati come personali.
Tracce del senso primario del sacro nonché del senso del numinoso, oltreché, com'è ovvio, del senso del divino, si riscontrano anche nella Bibbia: si pensi ad esempio all'episodio inquietante e sconcertante della circoncisione di Mosè o a quello del serpente di bronzo.
Quando dunque si parla di «timor di Dio» si parla di questi sentimenti e atteggiamenti primari dell'uomo e del loro sviluppo, in rapporto all'oggetto adeguato d'essi, che è il Signore. «Timore» dunque non significa affatto semplicemente "paura", significa invece nel contempo stupore, meraviglia, constatazione dell'unità dell'essere.
In realtà è impossibile pervenire all'amore di Dio se non temendolo, se non cioè arrivando al rapporto col sacro per lo stupore che esso suscita, nell'atto d'accorgersi che l'armonia, la vita, la bellezza, l'esistenza sono dono, sono dati.
Per contro, anche nell'Antico Testamento si parla di amore di Dio, in senso sia oggettivo che soggettivo; quindi l'amore di Dio non è una novità del Nuovo Testamento. Tuttavia finalmente nel Nuovo Testamento, per l'Incarnazione, cioè per la comunione personale tra Dio e l'uomo, questo scambio d'amore diviene realmente possibile; mentre in precedenza rimaneva una barriera fra umanità e divinità, nel momento in cui tale barriera crolla ecco che l'uomo può vivere l'esito del proprio desiderio e arrivare quindi ad un amore reale nei confronti della divinità.
NOTE:
(1) Per cogliere questo aspetto della riflessione teologica paolina occorre leggere con la dovuta attenzione la pericope dedicata alla morale domestica in Ef. 5,21-33, con particolare attenzione all'ultimo versetto, che correttamente andrebbe tradotto: «In conclusione anche voi ciascuno per quanto lo riguarda ami la propria donna come se stesso e la donna tema l'uomo». Infatti «se del "timore" si assume l'accezione corrente secondo cui sarebbe sinonimo di "paura", a parte ogni considerazione dipendente dalla nostra recente impostazione socioculturale, non si vede come tale sentimento potrebbe venir indicato come atteggiamento della Chiesa nei confronti del Cristo, che è il calco ed il modello
dell'atteggiamento della donna nei confronti dell'uomo; né si vede come questo timore-paura possa venir proposto sia alla Chiesa che alla donna come corrispettivo di quanto sopra veniva proposto a Cristo e in Cristo all'uomo: "amore e cura" (cfr. Ef 5,29). Non basta a risolvere il problema nemmeno la traduzione attenuata del testo greco proposta
dalla versione ufficiale: "sia rispettosa": a parte il fatto che non traduce il testo greco cui è in sostanza infedele, un'espressione di questo tipo finisce per non dire praticamente nulla. Verosimilmente per intendere ciò che vien comandato alle mogli nei confronti dei mariti è necessario riandare all'accezione sacra del "timore" così come emerge dagli scritti sia veterotestamentari che neotestamentari, accezione che è in buona sostanza assai prossima a quella che con linguaggio moderno, mutuato dallo studio della storia delle religioni, potremmo definire "senso del sacro" o meglio ancora "senso religioso", che è cosa affatto diversa dalla paura o dallo spavento» (C. Rusconi, Una sola carne, Rimini 1992, p. 100).
Tratto da il "grande pedagogo" (pagg. 140-141) di Carlo Rusconi
IL CRISTIANO E IL DONO DEL TIMOR DI DIO
A cura di Mario Galizzi SDB
Con il dono di Conoscenza abbiamo imparato tutto e tutti nella luce di Dio; con il dono di Intelligenza abbiamo capito che bisogna purificare il cuore dall’orgoglio per sviluppare al massimo la propria intelligenza e penetrare con l’aiuto dello Spirito nelle profondità di Dio; infine con il dono di Sapienza abbiamo gustato quanto è buono il Signore e come è bello lasciare che sia lui stesso a introdurci nella Storia della Salvezza e a programmare in sintonia con lui la propria vita per vivere in noi l’infinito amore di Dio per tutte le creature.
Ora, da questo atteggiamento di contemplazione di Dio, vogliamo scendere di più nella concretezza della vita e capire quei due doni fondamentali dello Spirito, che più ci aiutano a vivere concretamente la nostra relazione con Dio: il dono del Timore di Dio e il dono di Pietà. Esamineremo poi i doni del Consiglio e della Fortezza che ci aiuteranno a vivere correttamente la nostra relazione con gli altri, di cui già tanto abbiamo parlato, in particolare toccando il dono di Conoscenza. Infine parleremo dei frutti dello Spirito Santo elencati in Gal 5,22. Come si vede è ancora lungo il cammino che dobbiamo compiere, ma la sua conoscenza offrirà una certa completezza al tema che stiamo sviluppando in quest’Anno Santo: Chi è e come si forma il cristiano? Limitiamoci ora al dono del Timore di Dio.
Che cos’è il timore di Dio?
Per capirlo cerchiamo innanzitutto di indagare nella Scrittura il vero senso del timore di Dio che, come dono dello Spirito, non può certamente essere la paura di Dio. Ma è necessario convincerci di ciò, perché troppa gente ha paura di Dio. Ora gli argomenti, presi dalla Bibbia, per dimostrare che non si tratta di paura, sono assai abbondanti, ma due bellissimi testi sono più che sufficienti per capirci. Il primo è tratto dal Libro del Siracide (parola che significa: figlio di Sirac). Nel suo primo capitolo leggiamo queste belle frasi:
«Il timore del Signore è gloria e vanto, gioia e corona di esultanza. / Il timore del Signore allieta il cuore e dà contentezza, gioia e lunga vita. / Il timore del Signore è un dono del Signore che colloca sui sentieri dell’amore. / Per chi teme il Signore andrà bene alla fine, sarà benedetto nel giorno della sua morte. / Principio della Sapienza è il timore del Signore, egli la dona ai credenti sin dal seno materno... / Pienezza della Sapienza è temere il Signore, essa lo sazia con i suoi frutti» (1,11-15); il secondo testo è quello di Dn. 3,41: «Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo il tuo volto».
Dopo questa lettura possiamo capire perché in Is 11,2 il timore del Signore o spirito di timore del Signore non si confonde con la paura. Chi ha paura non va in cerca del volto del Signore, ma come Adamo ed Eva, dopo il peccato, si nascondono (Gn 3,8). Il vero timore di Dio si avvicina all’amore. È tale l’esperienza che l’uomo ha della bontà del Signore che il timore lo conduce a una totale fiducia in lui, come dice san Paolo: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura ma avete ricevuto uno spirito da figli per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Papà» (Rm 8,15).
Il “timore”, dono dello Spirito, è il timore filiale. Personalmente mi piacerebbe renderlo con l’espressione: il fascino di Dio o l’incanto di Dio. E lo possiamo descrivere così: come figli sentiamo il fascino della grandezza di Dio-Padre; ci sentiamo avvolti dalla sua infinita bontà, misericordia, tenerezza, sentiamo davvero quanto è bello ciò che dice il Sal 145,9: «Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature». Per noi Dio è la persona più desiderabile, più amabile, è il Sommo bene; senza di lui tutte le cose e tutte le persone non hanno senso; mentre tutto acquista senso se è visto nella sua luce: Dio è tutto per noi. Certamente sentiamo l’enorme distanza che c’è tra noi e Dio, ma questa distanza Dio l’ha eliminata nel suo amore. Ed è questo amore che chiede il nostro amore, che si fa umiltà, rispetto, docilità; si fa ubbidienza perché come Dio anche noi vogliamo solo il bene. Chi teme Dio in senso filiale si sforza con intima dolcezza e interiore compiacimento ad un esercizio di personale purificazione perché ogni cosa sia in consonanza amorosa con la maestà divina. Mediante la virtù della temperanza si cerca allora di guarire da ogni forma di illusione accattivante che i pensieri, spesso ribollenti, della carne e delle seducenti realtà mondane esercitano sul nostro cuore. È la condizione necessaria per poter godere del soffio dello Spirito e della presenza del Signore.
Caratteristica del timore del Signore è l’affetto filiale.
C’è un bellissimo episodio nella vita di Giovannino Bosco che dipinge plasticamente il timore filiale. Aveva solo otto anni. La mamma era assente, e lui ebbe l’idea di prendere qualche cosa che era riposto in alto. Non riuscendovi prese la sedia e vi salì sopra, ma nell’atto urtò in un vaso pieno d’olio che cadde per terra e si ruppe. Accorgendosi che non avrebbe potuto tenere nascosta la cosa alla mamma, pensò di diminuirle il dispiacere. Prese un lungo ramoscello da una siepe, lo ripulì ben bene e andò incontro alla mamma. Non aveva paura del castigo, ma gli doleva di aver dato un dispiacere a sua madre. Ebbene, questo è il vero senso del timore filiale: evitare ogni cosa che dia dispiacere alla persona amata, e Dio è l’essere più amabile.
Chi teme davvero Dio non riesce più a distinguere tra peccato veniale e peccato mortale perché cerca sempre di evitare ogni atto anche il più piccolo che non sia gradito a Dio, così colmo di amore verso le sue creature. E il risultato più evidente dell’amore filiale è un sentire nascere in sé l’orrore al peccato, anche al più piccolo peccato, perché entra in noi la paura di perdere la nostra amicizia e intimità con Dio. Dice un autore (Gardeil, citato da Drago a p. 82): «Perché temiamo Dio? Per una ragione sola. Perché a causa della nostra debolezza e della fragilità umana, abbiamo in noi il terribile potere di separarci da Dio. Più che Dio, noi temiamo la nostra volontà, facile preda degli inganni e delle seduzioni del peccato. Insomma, temere Dio è la paura di perdere Dio».
Come esempio, pensiamo a Padre Pio. Un frate del suo convento, durante una trasmissione televisiva nei giorni della beatificazione del Padre Pio, raccontò che una volta era andato a confessarsi da lui. Egli era convinto di avere solo piccoli peccati veniali, eppure il volto di Padre Pio divenne oltremodo triste. Così sono i veri santi. È tale il timore filiale che hanno dentro di sé, che ogni piccola offesa a Dio li rattrista e perciò ricorrono ad ogni mezzo per lottare contro il peccato; come don Bosco il quale diceva: «Quando vedo l’offesa di Dio, se avessi anche un’armata contro di me, non cedo». E se qualcuno chiedeva a don Bosco che cosa doveva fare per ricevere una grazia da Dio, egli rispondeva di riconciliarsi con Dio mediante il sacramento della confessione. Dal suo cuore ardente uscivano “faville di fede”, che accendevano nei cuori l’amore di Dio e con l’amore suscitavano sentimenti di filiale timore e riverenza verso Dio e tutte le cose sante. Don Bosco non temeva mai di accentuare quello che è il carattere proprio della morale cristiana, nella quale l’amore, divenuto perfetto, fa scomparire ogni timore servile, conservando e accrescendo il timore filiale.
Chi infatti intende rettamente il senso della vita cristiana che sgorga dalla grazia di Dio, dalla carità, dalla speranza e dalla fede, si accorge subito che in essa tutto ha un fine: l’osservanza dei comandamenti e il compimento del proprio dovere, non compiuto alla stregua dei servi, ma come uomini liberi, come figli di Dio. È così che si vive il timore filiale.
Qual è il vero fondamento del timore filiale?
Se il timore di Dio è la “radice della Sapienza”, l’umiltà fonda il timore filiale; ma forse è meglio dire che è l’umiltà colma di carità che fonda il timore filiale. L’umiltà è una forza armoniosa. Regola della funzione speciale della virtù morale dell’umiltà è la conoscenza di se stessi con una giusta valutazione del proprio essere: l’uomo non giudichi e non valuti se stesso al di sopra di quello che realmente è. C’è umiltà quando si rispetta e si onora Dio: Egli è il nostro Creatore, quindi il nostro essere dipende da lui; egli è il nostro Padre, quindi la nostra vita di figli dipende da lui e a lui deve rifluire sotto forma di filiale rispetto e riverenza. Queste disposizioni interiori plasmano nella fisionomia dello spirito il carattere vero e sincero dell’umiltà della mente, che rende l’uomo aperto all’influsso della grazia divina, ed eliminando da noi l’ostacolo della superbia, ci avvicina a Dio nella fede e, mediante il dono di Sapienza, ci immerge in pieno nella storia della salvezza e ci fa vivere in perfetta sintonia con Dio e in un giusto rapporto con Lui. Gesù ce lo ha insegnato quando a detto: «Chi si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,4). Con queste parole Gesù caratterizza l’umiltà come un ridivenire bambini dinanzi a Dio, cioè come un abbandonarsi interamente a lui e non aspettare nulla da se stessi.
Ma c’è anche un’altra sua parola: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Qui si sente quella libera scelta che il Figlio di Dio fece entrando nel mondo: «... non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,6-8). Si è fatto uno di noi, nostro fratello; e non si vergogna di chiamarci fratelli (Ebr 2,11), perché «è venuto per servirci e per dare la vita per noi» (Mc 10,45), e per essere come servo in mezzo a noi (Lc 2,27). Egli ha scelto liberamente la via del servizio. Si è reso umile dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, ponendosi come modello per tutti i suoi discepoli. Accogliamo allora l’invito di Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Come bambini di fronte a Dio, come servi umili di fronte ai fratelli non guardiamo mai nessuno dall’alto in basso, ma facciamoci servi gli uni degli altri. Solo imitando Gesù “mite e umile di cuore” saremo in grado di vivere in pienezza il timore di Dio.
Con il dono di Conoscenza abbiamo imparato tutto e tutti nella luce di Dio; con il dono di Intelligenza abbiamo capito che bisogna purificare il cuore dall’orgoglio per sviluppare al massimo la propria intelligenza e penetrare con l’aiuto dello Spirito nelle profondità di Dio; infine con il dono di Sapienza abbiamo gustato quanto è buono il Signore e come è bello lasciare che sia lui stesso a introdurci nella Storia della Salvezza e a programmare in sintonia con lui la propria vita per vivere in noi l’infinito amore di Dio per tutte le creature.
Ora, da questo atteggiamento di contemplazione di Dio, vogliamo scendere di più nella concretezza della vita e capire quei due doni fondamentali dello Spirito, che più ci aiutano a vivere concretamente la nostra relazione con Dio: il dono del Timore di Dio e il dono di Pietà. Esamineremo poi i doni del Consiglio e della Fortezza che ci aiuteranno a vivere correttamente la nostra relazione con gli altri, di cui già tanto abbiamo parlato, in particolare toccando il dono di Conoscenza. Infine parleremo dei frutti dello Spirito Santo elencati in Gal 5,22. Come si vede è ancora lungo il cammino che dobbiamo compiere, ma la sua conoscenza offrirà una certa completezza al tema che stiamo sviluppando in quest’Anno Santo: Chi è e come si forma il cristiano? Limitiamoci ora al dono del Timore di Dio.
Che cos’è il timore di Dio?
Per capirlo cerchiamo innanzitutto di indagare nella Scrittura il vero senso del timore di Dio che, come dono dello Spirito, non può certamente essere la paura di Dio. Ma è necessario convincerci di ciò, perché troppa gente ha paura di Dio. Ora gli argomenti, presi dalla Bibbia, per dimostrare che non si tratta di paura, sono assai abbondanti, ma due bellissimi testi sono più che sufficienti per capirci. Il primo è tratto dal Libro del Siracide (parola che significa: figlio di Sirac). Nel suo primo capitolo leggiamo queste belle frasi:
«Il timore del Signore è gloria e vanto, gioia e corona di esultanza. / Il timore del Signore allieta il cuore e dà contentezza, gioia e lunga vita. / Il timore del Signore è un dono del Signore che colloca sui sentieri dell’amore. / Per chi teme il Signore andrà bene alla fine, sarà benedetto nel giorno della sua morte. / Principio della Sapienza è il timore del Signore, egli la dona ai credenti sin dal seno materno... / Pienezza della Sapienza è temere il Signore, essa lo sazia con i suoi frutti» (1,11-15); il secondo testo è quello di Dn. 3,41: «Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo il tuo volto».
Dopo questa lettura possiamo capire perché in Is 11,2 il timore del Signore o spirito di timore del Signore non si confonde con la paura. Chi ha paura non va in cerca del volto del Signore, ma come Adamo ed Eva, dopo il peccato, si nascondono (Gn 3,8). Il vero timore di Dio si avvicina all’amore. È tale l’esperienza che l’uomo ha della bontà del Signore che il timore lo conduce a una totale fiducia in lui, come dice san Paolo: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura ma avete ricevuto uno spirito da figli per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Papà» (Rm 8,15).
Il “timore”, dono dello Spirito, è il timore filiale. Personalmente mi piacerebbe renderlo con l’espressione: il fascino di Dio o l’incanto di Dio. E lo possiamo descrivere così: come figli sentiamo il fascino della grandezza di Dio-Padre; ci sentiamo avvolti dalla sua infinita bontà, misericordia, tenerezza, sentiamo davvero quanto è bello ciò che dice il Sal 145,9: «Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature». Per noi Dio è la persona più desiderabile, più amabile, è il Sommo bene; senza di lui tutte le cose e tutte le persone non hanno senso; mentre tutto acquista senso se è visto nella sua luce: Dio è tutto per noi. Certamente sentiamo l’enorme distanza che c’è tra noi e Dio, ma questa distanza Dio l’ha eliminata nel suo amore. Ed è questo amore che chiede il nostro amore, che si fa umiltà, rispetto, docilità; si fa ubbidienza perché come Dio anche noi vogliamo solo il bene. Chi teme Dio in senso filiale si sforza con intima dolcezza e interiore compiacimento ad un esercizio di personale purificazione perché ogni cosa sia in consonanza amorosa con la maestà divina. Mediante la virtù della temperanza si cerca allora di guarire da ogni forma di illusione accattivante che i pensieri, spesso ribollenti, della carne e delle seducenti realtà mondane esercitano sul nostro cuore. È la condizione necessaria per poter godere del soffio dello Spirito e della presenza del Signore.
Caratteristica del timore del Signore è l’affetto filiale.
C’è un bellissimo episodio nella vita di Giovannino Bosco che dipinge plasticamente il timore filiale. Aveva solo otto anni. La mamma era assente, e lui ebbe l’idea di prendere qualche cosa che era riposto in alto. Non riuscendovi prese la sedia e vi salì sopra, ma nell’atto urtò in un vaso pieno d’olio che cadde per terra e si ruppe. Accorgendosi che non avrebbe potuto tenere nascosta la cosa alla mamma, pensò di diminuirle il dispiacere. Prese un lungo ramoscello da una siepe, lo ripulì ben bene e andò incontro alla mamma. Non aveva paura del castigo, ma gli doleva di aver dato un dispiacere a sua madre. Ebbene, questo è il vero senso del timore filiale: evitare ogni cosa che dia dispiacere alla persona amata, e Dio è l’essere più amabile.
Chi teme davvero Dio non riesce più a distinguere tra peccato veniale e peccato mortale perché cerca sempre di evitare ogni atto anche il più piccolo che non sia gradito a Dio, così colmo di amore verso le sue creature. E il risultato più evidente dell’amore filiale è un sentire nascere in sé l’orrore al peccato, anche al più piccolo peccato, perché entra in noi la paura di perdere la nostra amicizia e intimità con Dio. Dice un autore (Gardeil, citato da Drago a p. 82): «Perché temiamo Dio? Per una ragione sola. Perché a causa della nostra debolezza e della fragilità umana, abbiamo in noi il terribile potere di separarci da Dio. Più che Dio, noi temiamo la nostra volontà, facile preda degli inganni e delle seduzioni del peccato. Insomma, temere Dio è la paura di perdere Dio».
Come esempio, pensiamo a Padre Pio. Un frate del suo convento, durante una trasmissione televisiva nei giorni della beatificazione del Padre Pio, raccontò che una volta era andato a confessarsi da lui. Egli era convinto di avere solo piccoli peccati veniali, eppure il volto di Padre Pio divenne oltremodo triste. Così sono i veri santi. È tale il timore filiale che hanno dentro di sé, che ogni piccola offesa a Dio li rattrista e perciò ricorrono ad ogni mezzo per lottare contro il peccato; come don Bosco il quale diceva: «Quando vedo l’offesa di Dio, se avessi anche un’armata contro di me, non cedo». E se qualcuno chiedeva a don Bosco che cosa doveva fare per ricevere una grazia da Dio, egli rispondeva di riconciliarsi con Dio mediante il sacramento della confessione. Dal suo cuore ardente uscivano “faville di fede”, che accendevano nei cuori l’amore di Dio e con l’amore suscitavano sentimenti di filiale timore e riverenza verso Dio e tutte le cose sante. Don Bosco non temeva mai di accentuare quello che è il carattere proprio della morale cristiana, nella quale l’amore, divenuto perfetto, fa scomparire ogni timore servile, conservando e accrescendo il timore filiale.
Chi infatti intende rettamente il senso della vita cristiana che sgorga dalla grazia di Dio, dalla carità, dalla speranza e dalla fede, si accorge subito che in essa tutto ha un fine: l’osservanza dei comandamenti e il compimento del proprio dovere, non compiuto alla stregua dei servi, ma come uomini liberi, come figli di Dio. È così che si vive il timore filiale.
Qual è il vero fondamento del timore filiale?
Se il timore di Dio è la “radice della Sapienza”, l’umiltà fonda il timore filiale; ma forse è meglio dire che è l’umiltà colma di carità che fonda il timore filiale. L’umiltà è una forza armoniosa. Regola della funzione speciale della virtù morale dell’umiltà è la conoscenza di se stessi con una giusta valutazione del proprio essere: l’uomo non giudichi e non valuti se stesso al di sopra di quello che realmente è. C’è umiltà quando si rispetta e si onora Dio: Egli è il nostro Creatore, quindi il nostro essere dipende da lui; egli è il nostro Padre, quindi la nostra vita di figli dipende da lui e a lui deve rifluire sotto forma di filiale rispetto e riverenza. Queste disposizioni interiori plasmano nella fisionomia dello spirito il carattere vero e sincero dell’umiltà della mente, che rende l’uomo aperto all’influsso della grazia divina, ed eliminando da noi l’ostacolo della superbia, ci avvicina a Dio nella fede e, mediante il dono di Sapienza, ci immerge in pieno nella storia della salvezza e ci fa vivere in perfetta sintonia con Dio e in un giusto rapporto con Lui. Gesù ce lo ha insegnato quando a detto: «Chi si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,4). Con queste parole Gesù caratterizza l’umiltà come un ridivenire bambini dinanzi a Dio, cioè come un abbandonarsi interamente a lui e non aspettare nulla da se stessi.
Ma c’è anche un’altra sua parola: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Qui si sente quella libera scelta che il Figlio di Dio fece entrando nel mondo: «... non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,6-8). Si è fatto uno di noi, nostro fratello; e non si vergogna di chiamarci fratelli (Ebr 2,11), perché «è venuto per servirci e per dare la vita per noi» (Mc 10,45), e per essere come servo in mezzo a noi (Lc 2,27). Egli ha scelto liberamente la via del servizio. Si è reso umile dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, ponendosi come modello per tutti i suoi discepoli. Accogliamo allora l’invito di Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Come bambini di fronte a Dio, come servi umili di fronte ai fratelli non guardiamo mai nessuno dall’alto in basso, ma facciamoci servi gli uni degli altri. Solo imitando Gesù “mite e umile di cuore” saremo in grado di vivere in pienezza il timore di Dio.
IL TIMOR DI DIO NELL'EBRAISMO
« ...Chi è come Te, Grande per Santità, troppo Temibile "per essere lodato", Operatore di prodigi(?)... » (Esodo 15.11)
« il timore di Dio è il principio della sapienza »
Diversamente dalla paura o dal timore delle persone, il timore di Dio, in ebraico יראת שמים (Shamaim può anche essere inteso come uno tra i Nomi di Dio nella Bibbia), riguarda l'onore e la consapevolezza della Magnificenza divina e del suo Giudizio. Esso è spesso anche stretto all'osservanza dei precetti ed alla loro accettazione nel giogo della Torah e del Regno celeste; nella spiritualità ebraica il timore di Dio è la capacità necessaria a vivere il rispetto, l'amore e l'ubbidienza dei comandamenti e delle Mizvot di Dio.
« Orbene, oh Israel: che cosa chiede a te il Signore tuo Dio se non di temerLo, di seguire le Sue vie, di amarLo e di servirLo con tutto il tuo cuore e con tutta la Tua anima, di osservare i Suoi precetti ed i Suoi statuti che io ti comando oggi per il tuo bene? » (Deut 10.12-13)
Ci si riferisce all'amore ed al timore per Dio con l'espressione allegorica le "ali" della fede.
Nachman di Bratzlav affermò che la vera paura è il timore di Dio.
Nel Sefer haZohar (189-191) è scritto che il Mondo intero è basato su questa Mitzvah; esistono quindi tre modalità di timore di Dio: per le [possibili] punizioni in "questo Mondo", per le [possibili] punizioni nel Mondo a venire e per Dio; le prime sono connesse con quest'ultimo, anche se di maggior importanza. Tra essi il più semplice è quello per le punizioni, come l'amore per i meriti acquisiti; poi quello secondo la coscienza della superiore Volontà divina che tutto controlla e governa; infine quello legato all'amore incondizionato dinanzi alla Grandezza divina. Anche la Bontà e la Misericordia di Dio che perdona grazie alla Teshuvah suscitano il timore nei Suoi confronti. Spesso il timore è alimentato dal rischio di non mantenere il legame con Dio o diminuirne la qualità.
Ancora nel Sefer haZohar viene confermato il legame tra il timore del peccato e di Dio e la Simchah: ...poiché è felice colui che vive nel timore.
Secondo l'insegnamento che afferma che lo stolto non ha timore del peccato anche il timore del peccato è un'ulteriore prova della fede in Dio che permette di assumere il comportamento più consono alle prescrizioni della Torah, sia etiche che pratiche: senza sapienza non c'è timore.
Alcuni maestri hanno asserito che l'uomo che teme il proprio prossimo, "portandogli" così rispetto che non mancherebbe anche senza, dovrebbe soffermarsi maggiormente e con attenzione sul timore che deve essere rivolto a Dio ed imparare dal primo per il secondo.
Qualche volta, non per mancanza di sollecitudine, non per incapacità, non per apparente disorientamento interiore, né per timidezza, succede che per timore di Dio si esiti ad intraprendere lo studio di un particolare testo sacro ebraico o a recitare una Tefillah (in quest'ultimo caso talvolta molti attendono un'ora circa di preparazione per la dedica a Dio in dedizione liturgica).
Esempio di un uomo timoroso di Dio è Mosè, come evidente nell'episodio del roveto ardente (Esodo 3,1-6). Mosè chiamato da una voce proveniente da un roveto che bruciava senza consumarsi, riconosce la chiamata di Dio e subito risponde. Mosè mostra il timor di Dio che si manifesta come rispetto reverenziale e fiducioso. Anche Avraham venne benedetto e trovò grazia dinanzi a Dio per il timore vissuto soprattutto nella prova del sacrificio di Isacco suo figlio, anch'egli esempio del timore di Dio.
In tutto il Tanakh il timore di Dio è legato alla capacità del fedele di ascoltare le parole di Dio e di desiderare ciò che il Signore chiede. Riguarda inoltre il comportamento consono che, se tale alla presenza di un re in carne ed ossa, tanto più è di fronte a Dio.
Esiste una preghiera ebraica con cui si richiede a Dio di avere e timore "interno" e timore "esterno" di Lui.
Nella Qabbalah la Sefirah legata al timore è Ghevurah, appunto rappresentata dall'ebreo Isacco.
Nel Sefer haBahir è paragonato alla luce celeste:
« ...Possa Dio illuminare i nostri occhi con la luce della Torah. Possa Egli porre nei nostri cuori il Suo timore... ...Egli illuminerà il cuore, desterà il cuore con la "comprensione", farà "risplendere il cuore" con fulgore »
(Sefer haBahir V-200)
Come è scritto in Deuteronomio nella Parashah di Shofetim, anche il Mashiach teme Dio: 17.19-20.
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