San Giovanni damasceno
San Giovanni Damasceno (greco: Ἰωάννης ὁ Δαμασκηνός Iōannēs ho Damaskēnos; latino: Iohannes Damascenus arabo: يوحنا ابن ﺳﺮﺟﻮﻥ , Yuhannā ibn Sarjūn); Damasco, 676 ca.; † Laura di San Saba, 749 ca.) è stato un monaco, sacerdote e teologo siriano. Di famiglia araba di fede cristiana, figlio di Sarjūn ibn Manṣūr e nipote di Manṣūr - il primo della famiglia ad assumere alte responsabilità amministrative sotto il governo omayyade del califfo Mu'awiya ibn Abi Sufyan.
San Giovanni Damasceno nacque intorno al 676 a Damasco (da cui Damasceno) in Siria. Suo padre era ministro delle finanze. Colto e brillante, divenne consigliere e amico del Califfo cioè il prefetto arabo che guidava la regione. La frequentazione del monaco siciliano Cosmo, portato schiavo a Damasco, determinò in lui il desiderio di ritirarsi a vita solitaria, in compagnia del fratello, futuro vescovo di Maiouna. Andò dunque a vivere nella «laura» di San Saba, piccolo villaggio di monaci a Gerusalemme, dove ricevette l'ordinazione sacerdotale e in virtù della sua profonda preparazione teologica, ebbe l'incarico di predicatore titolare nella basilica del Santo Sepolcro. Tra le sue opere accanto agli inni e ai trattati teologici dedicati alla Madonna, è autore del compendio di teologia «Fonte della conoscenza» e de i «Tre discorsi in favore delle sacre immagini». Teologo illuminato e coltissimo, si meritò il titolo di «San Tommaso dell'Oriente». Nel 1890 Leone XIII lo ha proclamato dottore della Chiesa. (Fonte Avvenire)
Martirologio Romano: San Giovanni Damasceno, sacerdote e dottore della Chiesa, che rifulse per santità e dottrina e lottò strenuamente con la parola e con gli scritti contro l’imperatore Leone l’Isaurico in difesa del culto delle sacre immagini. Divenuto monaco nel monastero di Mar Saba vicino a Gerusalemme, si dedicò qui alla composizione di inni sacri fino alla morte.
Si occupò soprattutto dell'Incarnazione, fondandosi su presupposti filosofici aristotelici; portò un contributo alla mariologia difendendo gli attributi particolarissimi della Vergine; combatté le eresie cristologiche, i pauliciani e l'Islam; affermò la processione dello Spirito Santo dal Padre ma solo "attraverso" il Figlio; distinse in Dio la prescienza dalla predestinazione, riconoscendo cioè la libertà umana. Ma il suo tradizionalismo ne fece un teologo antiquato per i suoi tempi e il suo influsso sulla teologia bizantina fu modesto, perché a lungo trascurato. Ebbe molta influenza nell'evoluzione teologica e sulla trattazione sistematica dei problemi nelle Summae; e fu utilizzato anche da s. Tommaso. Il suo corpo fu deposto il 4 dicembre.
San Giovanni Damasceno nacque intorno al 676 a Damasco (da cui Damasceno) in Siria. Suo padre era ministro delle finanze. Colto e brillante, divenne consigliere e amico del Califfo cioè il prefetto arabo che guidava la regione. La frequentazione del monaco siciliano Cosmo, portato schiavo a Damasco, determinò in lui il desiderio di ritirarsi a vita solitaria, in compagnia del fratello, futuro vescovo di Maiouna. Andò dunque a vivere nella «laura» di San Saba, piccolo villaggio di monaci a Gerusalemme, dove ricevette l'ordinazione sacerdotale e in virtù della sua profonda preparazione teologica, ebbe l'incarico di predicatore titolare nella basilica del Santo Sepolcro. Tra le sue opere accanto agli inni e ai trattati teologici dedicati alla Madonna, è autore del compendio di teologia «Fonte della conoscenza» e de i «Tre discorsi in favore delle sacre immagini». Teologo illuminato e coltissimo, si meritò il titolo di «San Tommaso dell'Oriente». Nel 1890 Leone XIII lo ha proclamato dottore della Chiesa. (Fonte Avvenire)
Martirologio Romano: San Giovanni Damasceno, sacerdote e dottore della Chiesa, che rifulse per santità e dottrina e lottò strenuamente con la parola e con gli scritti contro l’imperatore Leone l’Isaurico in difesa del culto delle sacre immagini. Divenuto monaco nel monastero di Mar Saba vicino a Gerusalemme, si dedicò qui alla composizione di inni sacri fino alla morte.
Si occupò soprattutto dell'Incarnazione, fondandosi su presupposti filosofici aristotelici; portò un contributo alla mariologia difendendo gli attributi particolarissimi della Vergine; combatté le eresie cristologiche, i pauliciani e l'Islam; affermò la processione dello Spirito Santo dal Padre ma solo "attraverso" il Figlio; distinse in Dio la prescienza dalla predestinazione, riconoscendo cioè la libertà umana. Ma il suo tradizionalismo ne fece un teologo antiquato per i suoi tempi e il suo influsso sulla teologia bizantina fu modesto, perché a lungo trascurato. Ebbe molta influenza nell'evoluzione teologica e sulla trattazione sistematica dei problemi nelle Summae; e fu utilizzato anche da s. Tommaso. Il suo corpo fu deposto il 4 dicembre.
San Giovanni Damasceno, fu l’Ultimo dei Dottori orientali, era detto anche Giovanni “tre mani” di Damasco. Egli presenta notevoli motivi d’interesse, si chiamava Mansour Ibn Sarjun, ed era probabilmente di etnia araba, in un momento in cui Damasco con tutta la Siria erano ormai definitivamente entrate a far parte del Califfato e del mondo islamico.
In Siria, ai tempi degli antichi Califfi un arabo cristiano poteva mantenere un lignaggio di alto funzionario e produrre teologia ai massimi livelli, tant’è che Mansour-Giovanni di Damasco è il vero eroe dell’ultimo vero Concilio della Chiesa unita, con esponenti occidentali e orientali, il Niceno Secondo.
Oltretutto, se non ci fossero stati i musulmani a proteggerlo, la mano sinistra Giovanni l’avrebbe persa per davvero. Perché la leggenda dice che gliela fece tagliare il Califfo, sì, ma soltanto su istigazione dell’Imperatore cristiano di Costantinopoli, Leone III, che fece avere quest’ultimo dei documenti top secret in cui Mansour-Giovanni veniva descritto come uno dei capi di una fantomatica rivolta cristiana.
Erano tutte infamie, calunnie e illazioni; la verità – che filtra anche da una leggenda poco affidabile come questa – è che l’unico vero nemico di Giovanni era l’imperatore Leone III, l’iconoclasta che a partire dal 730 bandì e fece distruggere tutte le immagini di Cristo e dei Santi dalle chiese bizantine. Giovanni invece fu la voce più autorevole degli iconoduli, quelli che volevano continuare a venerare mosaici, affreschi e legni policromi. Sulle prime Leone sembrò averla vinta: aveva dalle sue non soltanto il potere militare, ma anche una certa insofferenza del popolo minuto nei confronti del clero e dei monaci, che di icone facevano già un grosso commercio. C’era poi da dare risposta a una sensazione diffusa: che il cristianesimo con le sue immagini fosse un po’ la religione del passato, che la novità dell’ottavo secolo fosse questa nuova fede semplice, guerriera, minimale: l’Islam. Anche i musulmani erano iconoclasti, sin da quando Maometto aveva distrutto gli idoli presso la Ka’ba.
Ma in fondo Gesù aveva fatto qualcosa di simile scacciando i mercanti dal tempio! Ugualmente Mosè, fondendo il vitello d’oro e facendolo inghiottire ai suoi stolti adoratori! Non era forse scritto nel Libro dei Libri: non ti farai alcuna immagine [di Dio]? Per uno strano paradosso, dal momento che gli iconoclasti si presentavano come i nemici delle superstizioni, a fare di Leone III e di alcuni suoi successori degli iconoclasti fu un riflesso superstizioso: la tendenza a vedere nelle proprie disfatte militari, o nelle eruzioni dei vulcani, la reazione di un Dio irritato con tutti quelli che pretendevano di ritrarlo in figure e adorare il legno o il marmo. Tutto questo mentre sull’altro lato del confine l’Islam iconoclasta fioriva e si espandeva, riempiendo il Medio Oriente e il Maghreb di arabeschi e intricate architetture astratte. Insomma, ci fu un momento tra ottavo e nono secolo in cui sembrava che il futuro del Mediterraneo sarebbe stato iconoclasta: anche Carlo Magno era tentato dal fare pulizia nei santuari (era anche un’ottima scusa per raccattare parecchio oro e preziosi), forse se i sovrani bizantini avessero tenuto duro avremmo avuto anche noi un Alto medioevo astratto e poligonale.
Nel frattempo, nel suo monastero nel deserto, Giovanni-Mansour preparava il contrattacco.
In Siria, ai tempi degli antichi Califfi un arabo cristiano poteva mantenere un lignaggio di alto funzionario e produrre teologia ai massimi livelli, tant’è che Mansour-Giovanni di Damasco è il vero eroe dell’ultimo vero Concilio della Chiesa unita, con esponenti occidentali e orientali, il Niceno Secondo.
Oltretutto, se non ci fossero stati i musulmani a proteggerlo, la mano sinistra Giovanni l’avrebbe persa per davvero. Perché la leggenda dice che gliela fece tagliare il Califfo, sì, ma soltanto su istigazione dell’Imperatore cristiano di Costantinopoli, Leone III, che fece avere quest’ultimo dei documenti top secret in cui Mansour-Giovanni veniva descritto come uno dei capi di una fantomatica rivolta cristiana.
Erano tutte infamie, calunnie e illazioni; la verità – che filtra anche da una leggenda poco affidabile come questa – è che l’unico vero nemico di Giovanni era l’imperatore Leone III, l’iconoclasta che a partire dal 730 bandì e fece distruggere tutte le immagini di Cristo e dei Santi dalle chiese bizantine. Giovanni invece fu la voce più autorevole degli iconoduli, quelli che volevano continuare a venerare mosaici, affreschi e legni policromi. Sulle prime Leone sembrò averla vinta: aveva dalle sue non soltanto il potere militare, ma anche una certa insofferenza del popolo minuto nei confronti del clero e dei monaci, che di icone facevano già un grosso commercio. C’era poi da dare risposta a una sensazione diffusa: che il cristianesimo con le sue immagini fosse un po’ la religione del passato, che la novità dell’ottavo secolo fosse questa nuova fede semplice, guerriera, minimale: l’Islam. Anche i musulmani erano iconoclasti, sin da quando Maometto aveva distrutto gli idoli presso la Ka’ba.
Ma in fondo Gesù aveva fatto qualcosa di simile scacciando i mercanti dal tempio! Ugualmente Mosè, fondendo il vitello d’oro e facendolo inghiottire ai suoi stolti adoratori! Non era forse scritto nel Libro dei Libri: non ti farai alcuna immagine [di Dio]? Per uno strano paradosso, dal momento che gli iconoclasti si presentavano come i nemici delle superstizioni, a fare di Leone III e di alcuni suoi successori degli iconoclasti fu un riflesso superstizioso: la tendenza a vedere nelle proprie disfatte militari, o nelle eruzioni dei vulcani, la reazione di un Dio irritato con tutti quelli che pretendevano di ritrarlo in figure e adorare il legno o il marmo. Tutto questo mentre sull’altro lato del confine l’Islam iconoclasta fioriva e si espandeva, riempiendo il Medio Oriente e il Maghreb di arabeschi e intricate architetture astratte. Insomma, ci fu un momento tra ottavo e nono secolo in cui sembrava che il futuro del Mediterraneo sarebbe stato iconoclasta: anche Carlo Magno era tentato dal fare pulizia nei santuari (era anche un’ottima scusa per raccattare parecchio oro e preziosi), forse se i sovrani bizantini avessero tenuto duro avremmo avuto anche noi un Alto medioevo astratto e poligonale.
Nel frattempo, nel suo monastero nel deserto, Giovanni-Mansour preparava il contrattacco.
La leggenda vuole che la mano fattagli mozzare dal Califfo, gliela fece ricrescere la Madonna, per la quale Giovanni aveva una devozione speciale (come teologo non teorizzò soltanto la sua verginità, ma anche quella della madre, Sant’Anna: così Maria si ritrova a essere vergine, figlia di vergine e madre di vergine, tutta una dinastia). Da un’icona della Madre di Dio, adeguatamente venerata, uscì una mano nuova che si andò ad attaccare al moncherino del Santo: è una leggenda, appunto, anche se molte icone orientali mostrano una Madonna con una mano in più che sembra uscire dal quadro. La verità è che mentre i preti iconoduli oppositori di Leone III venivano perseguitati e degradati, obbligati a passeggiare mano nella mano con una donna (punizione suprema!)… nel suo eremo in mezzo all’Islam, Giovanni era l’unico teologo in lingua greca libero di criticare Leone quanto voleva: agli islamici iconoclasti non doveva affatto dispiacere tenersi in casa l’eretico dei propri avversari. La sua risposta ai nemici delle icone è sottile: Giovanni chiarisce da subito che gli iconoduli non adorano la materia (il legno delle icone, il marmo delle statue), ma la venerano, dopotutto, perché non dovrebbero? Anche la materia è opera di Dio; non solo, ma è attraverso la materia che Dio, facendosi uomo, ha salvato i cristiani. “Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole”. Qui si capisce che non c’erano in gioco soltanto le rendite delle manifatture di icone e dei santuari forniti di reliquie. Siamo all’ultimo stadio di una lotta che è durata secoli, nel cristianesimo orientale, tra spregiatori della materia (gnostici, ariani, monofisiti) e rivalutatori della medesima. Le omelie di Giovanni, scritte in un Greco semplice (ma Mansour era un erudito coltissimo, oltre a un musicista e poeta raffinato) passano rapidamente il confine e infiammano il dibattito.
Alla fine, anche grazie a un’imperatrice affezionata alle sue icone di famiglia, l’iconoclastia sarà rigettata come eresia. Cinquant’anni più tardi un’altra sconfitta militare e un altro imperatore perplesso rimetteranno in gioco tutto quanto, ma ormai la strada è segnata: di là dal confine l’Islam diventerà sempre più iconoclasta e astratto (ben presto dopo Dio anche Maometto diventerà irraffigurabile); mentre al di qua, produrre icone diventerà sempre più redditizio.
Certo, poi di sussulti iconoclasti nella nostra Storia ce ne sono stati altri. Per esempio la riforma protestante, che sostituì la lettura e la meditazione della Bibbia alla venerazione delle immagini.
Alla fine, anche grazie a un’imperatrice affezionata alle sue icone di famiglia, l’iconoclastia sarà rigettata come eresia. Cinquant’anni più tardi un’altra sconfitta militare e un altro imperatore perplesso rimetteranno in gioco tutto quanto, ma ormai la strada è segnata: di là dal confine l’Islam diventerà sempre più iconoclasta e astratto (ben presto dopo Dio anche Maometto diventerà irraffigurabile); mentre al di qua, produrre icone diventerà sempre più redditizio.
Certo, poi di sussulti iconoclasti nella nostra Storia ce ne sono stati altri. Per esempio la riforma protestante, che sostituì la lettura e la meditazione della Bibbia alla venerazione delle immagini.
Catechesi di Benedetto XVI su Giovanni Damasceno all'udienza generale di mercoledì 6 maggio 2009
Cari fratelli e sorelle,
vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica – rivestita forse già dal padre - di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890.
Di lui si ricordano in Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno della Vergine Maria.
Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: "In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?... E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?... E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole" (Contra imaginum calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90). Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede.
In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo discorso in difesa delle immagini: "Anzitutto (veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è detto fuoco, non per natura ma per contingenza e per partecipazione del fuoco. Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2)" (III, 33, col. 1352 A). Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: "Dio, che è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i] sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon)" (II, 2, PG 94, col. 865A). E per chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: "Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton) dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro" (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile.
L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dall anostra colpa, "fosse rinforzata e rinnovata" dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo nell’"essere", ma nel "bene-essere" (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°). Con trasporto appassionato Giovanni spiega: "Era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la strada della virtù (didachthenai aretes hodòn), che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna… Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropias pelagos)…" E’ una bella espressione. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua Giovanni Damasceno: "Egli stesso, il Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio" (III, 1. PG 94, coll. 981C-984B).
Possiamo immaginare il conforto e la gioia che diffondevano nel cuore dei fedeli queste parole ricche di immagini tanto affascinanti. Le ascoltiamo anche noi, oggi, condividendo gli stessi sentimenti dei cristiani di allora: Dio vuole riposare in noi, vuole rinnovare la natura anche tramite la nostra conversione, vuol farci partecipi della sua divinità. Che il Signore ci aiuti a fare di queste parole sostanza della nostra vita.
Autore: Benedetto XVI
vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica – rivestita forse già dal padre - di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890.
Di lui si ricordano in Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno della Vergine Maria.
Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: "In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?... E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?... E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole" (Contra imaginum calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90). Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede.
In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo discorso in difesa delle immagini: "Anzitutto (veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è detto fuoco, non per natura ma per contingenza e per partecipazione del fuoco. Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2)" (III, 33, col. 1352 A). Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: "Dio, che è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i] sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon)" (II, 2, PG 94, col. 865A). E per chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: "Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton) dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro" (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile.
L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dall anostra colpa, "fosse rinforzata e rinnovata" dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo nell’"essere", ma nel "bene-essere" (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°). Con trasporto appassionato Giovanni spiega: "Era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la strada della virtù (didachthenai aretes hodòn), che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna… Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropias pelagos)…" E’ una bella espressione. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua Giovanni Damasceno: "Egli stesso, il Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio" (III, 1. PG 94, coll. 981C-984B).
Possiamo immaginare il conforto e la gioia che diffondevano nel cuore dei fedeli queste parole ricche di immagini tanto affascinanti. Le ascoltiamo anche noi, oggi, condividendo gli stessi sentimenti dei cristiani di allora: Dio vuole riposare in noi, vuole rinnovare la natura anche tramite la nostra conversione, vuol farci partecipi della sua divinità. Che il Signore ci aiuti a fare di queste parole sostanza della nostra vita.
Autore: Benedetto XVI
Recensione del libro: John of Damascus, First Apologist to the Muslims: The Trinity and Christian Apologetics in the Early Islamic Period , Pickwick Publications
Guerre di parole tra cristiani e musulmani nel medioevo
Recensione del libro in cui compare l’Islamocristianesimo
43 (2017) Janosik Daniel J.,
John of Damascus, First Apologist dei Muslims: The Trinity and Christian Apologetics in the Early Islamic Period , Pickwick Publications, Eugene, OR 2016, xvii + 297 pp.
(Giovanni di Damasco, Primo Apologeta per i musulmani: La Trinità e l'apologetica cristiana nel Primo Periodo Islamico, Pickwick Publications, Eugene, OR 2016, XVII + 297 pp.)
L'autore del lavoro qui in esame, Daniel J. Janosik, è professore a contratto di Apologetica, Teologia storica e Studi islamici al Seminario evangelico meridionale e alla Columbus International University, in North Carolina, Stati Uniti.
Il lavoro era originariamente la tesi di dottorato dell'autore presentata nel 2011 alla London School of Theology.
La prefazione del libro inizia ricordando che Giovanni di Damasco fu il primo maggiore Teologo cristiano che abbia affrontato l'islam. Attraverso le sue due opere sull'Islam, l'Eresia degli Ismaeliti (riferendosi ad Ismaele, figlio di Agar) e alla Disputa tra un cristiano e un Saraceno, Giovanni di Damasco "sviluppò un modello apologetico che presentava la Cristiana come l'unica vera fede" (XIII). Gran parte dell'attenzione del libro si concentra sulla dottrina della Trinità di Giovanni di Damasco , che ha cercato di difendere di nuovo quello che lui vedeva come l'eresia degli “ismaeliti”. In tal modo, sostiene Janosik, Giovanni di Damasco seguì uno schema già stabilito attraverso il quale le dottrine e le credenze venivano continuamente ricontestualizzate secondo come i primi scrittori cristiani affrontarono nuove forme di eresia. Janosik sottolinea il rapporto tra teologia e apologetica nel processo di plasmare la dottrina trinitaria, un processo a cui Giovanni di Damasco avrebbe contribuito nella sua risposta alle eresie dei suoi giorni. Il primo capitolo offre una panoramica dei primi sette secoli di controversie che hanno contribuito allo sviluppo della dottrina della Trinità. Dopo un riferimento un po' strano allo sforzo di fornire a Giovanni di Damasco" una teologia contestualizzata sistematica per i perseguitati cristiani” (P. 18), il capitolo finisce elogiando il suo modo di "Usare l'apologetica per sviluppare la sua teologia e poi difendere la sua teologia contro l'eresia " come "Prezioso per questa generazione e anche per quelle future" (p.19).
Questa recensione condivide l'opinione espressa da Sidney Griffith che "i cristiani non lo erano di solito soggetto a pura persecuzione nel mondo dell'Islam semplicemente in ragione dell'essere Cristiani" (La Chiesa all'ombra della moschea: cristiani e musulmani nel mondo dell'Islam, Princeton University Press, Princeton, NJ 2010, p. 148). Giovanni di Damasco e i suoi correligionari vivevano in una condizione di reale inferiorità sociale e politica, ma la parola "Persecuzione" evoca una situazione che è stata l'eccezione piuttosto che la regola.
Il secondo capitolo tratta delle controversie riguardanti la vita e le opere di Giovanni di Damasco. Janosik confronta e contrappone le opinioni di studiosi come Daniel Sahas, Andrew Louth, Raymond Le Coz, Robert Hoyland, Frederic Chase e altri. Sfortunatamente , si conoscono pochissimi dettagli storici sulla vita di Giovanni di Damasco, perché le sue biografie medievali sono relativamente tarde e fortemente agiografiche. Tuttavia, Janosik crede che si possa tranquillamente affermare che Giovanni di Damasco" sia stato impiegato in una posizione chiave come funzionario a capo delle finanze nell'Impero Umayyadde, servendo come sacerdote e monaco nella tradizione melchita, e sia stato responsabile della scrittura di almeno due trattati sull'Islam come pure di significative opere dottrinali e liturgiche per la chiesa "(pag.44).
Capitolo tre si occupa del contesto islamico di Giovanni di Damasco. Janosik ritiene che Giovanni di Damasco, scrivendo oltre un secolo dopo la morte di Maometto, "Offra una importante finestra sui primi sviluppi dell'Islam, il Corano e la natura delle controversie teologiche dell'ottavo secolo - "(pagina 45). Secondo Janosik, gli scritti di Giovanni di Damasco sull'Islam combaciano con alcune tesi “revisioniste” riguardanti il racconto tradizionale delle origini islamiche, ad esempio, l'idea che non esistesse un Qur'à pienamente canonizzato dalla metà dell'ottavo secolo. La maggior parte del capitolo è dedicata a presentare le domande sollevate dagli studiosi che ricorrono a testimonianze letterarie non musulmane del settimo e dell'inizio dell'VIII secolo nel tentativo di "Ricostruire il puzzle del primo Islam" (pagina 54).
Il capitolo conclusivo afferma che, secondo queste fonti, che corroborano gli scritti di Giovanni di Damasco, "l'invasione degli arabi sposò una forma di religione di transizione e monoteista simile alle forme dell'ebraismo e dei cristiani trovate nella zona "(pagina 64). Questa immagine è completata nel quarto capitolo, in cui l'autore presenta ciò che recenti ricerche archeologiche, numismatiche ed epigrafiche rivelano sul contesto islamico di Giovanni di Damasco. Come documenta lo stesso Janosik, gli studiosi sono ben lontani dall'essere unanimi nei loro punti di vista sull'evoluzione storica del nascente Islam. Sembrano tutti d'accordo, tuttavia, sul ruolo cruciale svolto da 'Abd al-Malik b. Marwān, il quinto Califfo Umayyadde (685-705), nell'autoaffermazione della nuova comunità religiosa in contraddizione con altre tradizioni monoteistiche consolidate. Tuttavia, nonostante gli sforzi di 'Abd al-Malik, Giovanni di Damasco "considerava ancora che le credenze degli Ismaeliti rappresentassero un'eresia del cristianesimo piuttosto che una religione distinta dalla propria fede "(pagina 76).
Il capitolo cinque è una breve esposizione dei primi dibattiti teologici nell'Islam, più specificamente il rapporto tra fede e opere, libero arbitrio contro predestinazione, e la natura creata o non creata del Qur'ān. Questo è forse il capitolo più debole del lavoro, nel senso che l'autore non riesce a fornire una valida motivazione per la sua inclusione nel libro, ad eccezione dell'osservazione di Arthur S. Tritton secondo cui le visioni di Giovanni di Damasco sul Logos come Parola increata di Dio "potrebbero aver provocato la dottrina del Corano increato" (citato a pagina 87). Inoltre, il capitolo fa molto affidamento sulla dottrina, certamente importante ma ampiamente datata, di figure come Ignáz Goldziher (morto nel 1921) e Duncan Black McDonald (morto nel 1943). Questo non vuol dire che l'attenzione ai primi dibattiti teologici musulmani sia del tutto irrilevante o superfluo, ma che Janosik non colleghi efficacemente questo capitolo all'argomento generale del libro.
Il capitolo sei si concentra sull'Eresia degli ismaeliti, le poche pagine che Giovanni di Damasco dedica all'Islam nel suo 'Compendio delle eresie', che è una delle tre parti di un più ampio lavoro teologico dal titolo Fonte di conoscenza (Pēgē gnōseōs). L'importanza dell'Eresia degli ismaeliti giace non solo nel suo essere il primo trattato sostanziale dell'Islam da parte di un grande studioso cristiano, ma anche nella sua fondamentale influenza sulle successive risposte cristiane all'Islam.
Anche se il termine "eresia" in questo contesto deve essere compreso in un senso molto più ampio di quanto non si intenda di solito, Janosik sottolinea il fatto che Giovanni di Damasco non considerava le credenze degli "Ismaeliti" come un sistema di credenze separato, come Il manicheismo, ma piuttosto come una distorsione della verità cristiana, come indicato dal suo accenno alle conversazioni del "falso profeta chiamato Mamed" con "un monaco ariano".
Janosik giustamente sottolinea che i moderni lettori devono ricordare che "in quel momento non c'erano riferimenti a una religione universale chiamata Islam, ma piuttosto che il gruppo di conquistatori, chiamato Ismaeliti, Saraceni o Agarenes, sposò convinzioni e tradizioni che sembravano essere estrazioni distorte dalle due maggiori religioni dell'area, ebraismo e cristianesimo "(p. 98). I prossimi due capitoli trattano la Disputa tra un Saraceno e un cristiano, la cui paternità rimane incerta. Sono sopravvissute diverse recensioni del lavoro, che differiscono molto l'una dall'altra. Janosik dedica il capitolo sette alla revisione del dibattito sulla domanda, concludendo che "sembra giustificato affermare che la forma finale della Disputa che oggi abbiamo ricavato da dialoghi scritti realmente da Giovanni di Damasco e dialoghi trasmessi oralmente che sono stati raccolti dentro un testo "composito" (p.136).
Il capitolo otto analizza il contenuto della Disputa, che è stato apparentemente scritto come un manuale per gli apologeti cristiani: frasi come "Quando il Saracino ti dice ..." appaiono diverse volte. Il capitolo nove discute la dottrina trinitaria di Giovanni di Damasco nel tentativo di accertare se L'interazione apologetica di Giovanni di Damasco con l'inizio delle credenze islamiche avesse contribuito a plasmare il modo in cui ha presentato la dottrina ortodossa della Trinità. Janosik confronta e contrasta la presentazione di Giovanni di Damasco sulla Trinità in 'Un accurato riassunto della fede ortodossa', la terza parte della Fonte della conoscenza con la sua trattazione sulla Trinità nelle sue dissertazioni sull'Islam. Janosik propone anche quella contro la polemica di Giovanni di Damasco sugli iconoclasti, i monofisiti, i nestoriani e i manichei bizantini dovrebbero essere visti come argomenti contro Islam, il quale era "Il vero sfidante" a causa della sua " Continua crescita e della posizione dominante" (pagina 191).
Janosik conclude che gli scritti 'teologici e apologetici' di Giovanni di Damasco furono sviluppati in sequenza: "l'apologetica di Giovanni scaturiva dalla sua teologia ed egli ha sviluppato la sua teologia per gettare le basi per le sue apologetiche "(p.77).
Capitolo dieci si concentra sullo sviluppo dell'approccio apologetico di Giovanni di Damasco, che Janosik descrive come composto da tre parti in sequenza: "Nella prima Giovanni spiega cosa credono gli Ismaeliti, poi egli confronta quelle credenze con le Sacre Scritture cristiane e guida a ragionare sulla dottrina. Alla fine, confuta le credenze musulmane e sostiene che sono inferiori e irrazionali in paragone alla dottrina cristiana " (pagina 203). Secondo Janosik, anche se l'enfasi di Giovanni di Damasco stava rafforzando la verità del cristianesimo negli occhi dei suoi lettori cristiani oltre che offrire argomenti dettagliati contro la nuova "eresia", egli nondimeno, ha fornito ai suoi lettori argomenti per difendere la loro fede da una critica musulmana. Il capitolo undici esplora l’apologetica dei successori di Giovanni di Damasco nel mondo dell'Islam. Il capitolo si concentra su tre figure - Theodore Abū Qurra († circa 825), patriarca Timoteo I (morto nell'823) e "Abd al-Masīḥ b. Isḥāq al-Kindī (pseudonimo, nono secolo) – al fine di dimostrare che il carattere dei loro approcci apologetici era influenzato da Giovanni di Damasco, in particolare per quanto riguarda la loro difesa della Trinità. Allo stesso tempo, questi autori hanno portato un'ulteriore contestualizzazione dell'approccio apologetico di Giovanni cercando di basare le prospettive cristiane sul Qur'ā insegnando bene ed esprimere la dottrina cristiana nelle categorie filosofiche e teologiche condivise dai loro contemporanei musulmani. Infine, nell'ultimo capitolo, Janosik ci offre i suoi pensieri conclusivi. Egli elogia l'interazione tra gli scritti teologici e gli sforzi apologetici di Giovanni di Damasco nei confronti di guardare all'Islam come un modello "per noi "(p 251).
Nella prefazione al libro, Peter G. Riddell, ex direttore del Center for Islamic Studies e Christian-Muslim Relations presso la London School of Theology, sottolinea la natura "puntuale" del libro di Janosik, affermando che "i lettori di questo lavoro saranno" equipaggiati non solo con approfondimenti sulla storia paleocristiana ma anche con strumenti per rispondere alla sfida dell'Islam alla chiesa oggi "(XII). Di questa recensione mi chiedo, tuttavia, se L'approccio apologetico di Giovanni di Damasco, che Janosik riassume nei seguenti tre verbi: capire, difendere e confutare, è il miglior modello per i cristiani di oggi per ingaggiare la sfida delle nostre società sempre più multiculturali e multireligiose. In una sezione intitolata, "Le debolezze dell'approccio di Giovanni" (p.281), lo stesso Janosik sottolinea come lo scrittore Damasceno non era interessato a cercare un terreno comune con i musulmani, o nel coinvolgerli in un serio scambio intellettuale. Né ha istruito i suoi lettori cristiani in modo da raggiungere i musulmani e rendergli testimonianza. Questo recensore si rammarica del fatto che alcuni di questi punti non siano stati ripresi nel capitolo conclusivo del libro. Come disse: Janosik dovrebbe essere ringraziato per aver fornito una presentazione leggibile e colta degli scritti sull'Islam di Giovanni di Damasco.
Diego Sarrò CUCARELLA
Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici
http://www.pisai.it/
Recensione del libro in cui compare l’Islamocristianesimo
43 (2017) Janosik Daniel J.,
John of Damascus, First Apologist dei Muslims: The Trinity and Christian Apologetics in the Early Islamic Period , Pickwick Publications, Eugene, OR 2016, xvii + 297 pp.
(Giovanni di Damasco, Primo Apologeta per i musulmani: La Trinità e l'apologetica cristiana nel Primo Periodo Islamico, Pickwick Publications, Eugene, OR 2016, XVII + 297 pp.)
L'autore del lavoro qui in esame, Daniel J. Janosik, è professore a contratto di Apologetica, Teologia storica e Studi islamici al Seminario evangelico meridionale e alla Columbus International University, in North Carolina, Stati Uniti.
Il lavoro era originariamente la tesi di dottorato dell'autore presentata nel 2011 alla London School of Theology.
La prefazione del libro inizia ricordando che Giovanni di Damasco fu il primo maggiore Teologo cristiano che abbia affrontato l'islam. Attraverso le sue due opere sull'Islam, l'Eresia degli Ismaeliti (riferendosi ad Ismaele, figlio di Agar) e alla Disputa tra un cristiano e un Saraceno, Giovanni di Damasco "sviluppò un modello apologetico che presentava la Cristiana come l'unica vera fede" (XIII). Gran parte dell'attenzione del libro si concentra sulla dottrina della Trinità di Giovanni di Damasco , che ha cercato di difendere di nuovo quello che lui vedeva come l'eresia degli “ismaeliti”. In tal modo, sostiene Janosik, Giovanni di Damasco seguì uno schema già stabilito attraverso il quale le dottrine e le credenze venivano continuamente ricontestualizzate secondo come i primi scrittori cristiani affrontarono nuove forme di eresia. Janosik sottolinea il rapporto tra teologia e apologetica nel processo di plasmare la dottrina trinitaria, un processo a cui Giovanni di Damasco avrebbe contribuito nella sua risposta alle eresie dei suoi giorni. Il primo capitolo offre una panoramica dei primi sette secoli di controversie che hanno contribuito allo sviluppo della dottrina della Trinità. Dopo un riferimento un po' strano allo sforzo di fornire a Giovanni di Damasco" una teologia contestualizzata sistematica per i perseguitati cristiani” (P. 18), il capitolo finisce elogiando il suo modo di "Usare l'apologetica per sviluppare la sua teologia e poi difendere la sua teologia contro l'eresia " come "Prezioso per questa generazione e anche per quelle future" (p.19).
Questa recensione condivide l'opinione espressa da Sidney Griffith che "i cristiani non lo erano di solito soggetto a pura persecuzione nel mondo dell'Islam semplicemente in ragione dell'essere Cristiani" (La Chiesa all'ombra della moschea: cristiani e musulmani nel mondo dell'Islam, Princeton University Press, Princeton, NJ 2010, p. 148). Giovanni di Damasco e i suoi correligionari vivevano in una condizione di reale inferiorità sociale e politica, ma la parola "Persecuzione" evoca una situazione che è stata l'eccezione piuttosto che la regola.
Il secondo capitolo tratta delle controversie riguardanti la vita e le opere di Giovanni di Damasco. Janosik confronta e contrappone le opinioni di studiosi come Daniel Sahas, Andrew Louth, Raymond Le Coz, Robert Hoyland, Frederic Chase e altri. Sfortunatamente , si conoscono pochissimi dettagli storici sulla vita di Giovanni di Damasco, perché le sue biografie medievali sono relativamente tarde e fortemente agiografiche. Tuttavia, Janosik crede che si possa tranquillamente affermare che Giovanni di Damasco" sia stato impiegato in una posizione chiave come funzionario a capo delle finanze nell'Impero Umayyadde, servendo come sacerdote e monaco nella tradizione melchita, e sia stato responsabile della scrittura di almeno due trattati sull'Islam come pure di significative opere dottrinali e liturgiche per la chiesa "(pag.44).
Capitolo tre si occupa del contesto islamico di Giovanni di Damasco. Janosik ritiene che Giovanni di Damasco, scrivendo oltre un secolo dopo la morte di Maometto, "Offra una importante finestra sui primi sviluppi dell'Islam, il Corano e la natura delle controversie teologiche dell'ottavo secolo - "(pagina 45). Secondo Janosik, gli scritti di Giovanni di Damasco sull'Islam combaciano con alcune tesi “revisioniste” riguardanti il racconto tradizionale delle origini islamiche, ad esempio, l'idea che non esistesse un Qur'à pienamente canonizzato dalla metà dell'ottavo secolo. La maggior parte del capitolo è dedicata a presentare le domande sollevate dagli studiosi che ricorrono a testimonianze letterarie non musulmane del settimo e dell'inizio dell'VIII secolo nel tentativo di "Ricostruire il puzzle del primo Islam" (pagina 54).
Il capitolo conclusivo afferma che, secondo queste fonti, che corroborano gli scritti di Giovanni di Damasco, "l'invasione degli arabi sposò una forma di religione di transizione e monoteista simile alle forme dell'ebraismo e dei cristiani trovate nella zona "(pagina 64). Questa immagine è completata nel quarto capitolo, in cui l'autore presenta ciò che recenti ricerche archeologiche, numismatiche ed epigrafiche rivelano sul contesto islamico di Giovanni di Damasco. Come documenta lo stesso Janosik, gli studiosi sono ben lontani dall'essere unanimi nei loro punti di vista sull'evoluzione storica del nascente Islam. Sembrano tutti d'accordo, tuttavia, sul ruolo cruciale svolto da 'Abd al-Malik b. Marwān, il quinto Califfo Umayyadde (685-705), nell'autoaffermazione della nuova comunità religiosa in contraddizione con altre tradizioni monoteistiche consolidate. Tuttavia, nonostante gli sforzi di 'Abd al-Malik, Giovanni di Damasco "considerava ancora che le credenze degli Ismaeliti rappresentassero un'eresia del cristianesimo piuttosto che una religione distinta dalla propria fede "(pagina 76).
Il capitolo cinque è una breve esposizione dei primi dibattiti teologici nell'Islam, più specificamente il rapporto tra fede e opere, libero arbitrio contro predestinazione, e la natura creata o non creata del Qur'ān. Questo è forse il capitolo più debole del lavoro, nel senso che l'autore non riesce a fornire una valida motivazione per la sua inclusione nel libro, ad eccezione dell'osservazione di Arthur S. Tritton secondo cui le visioni di Giovanni di Damasco sul Logos come Parola increata di Dio "potrebbero aver provocato la dottrina del Corano increato" (citato a pagina 87). Inoltre, il capitolo fa molto affidamento sulla dottrina, certamente importante ma ampiamente datata, di figure come Ignáz Goldziher (morto nel 1921) e Duncan Black McDonald (morto nel 1943). Questo non vuol dire che l'attenzione ai primi dibattiti teologici musulmani sia del tutto irrilevante o superfluo, ma che Janosik non colleghi efficacemente questo capitolo all'argomento generale del libro.
Il capitolo sei si concentra sull'Eresia degli ismaeliti, le poche pagine che Giovanni di Damasco dedica all'Islam nel suo 'Compendio delle eresie', che è una delle tre parti di un più ampio lavoro teologico dal titolo Fonte di conoscenza (Pēgē gnōseōs). L'importanza dell'Eresia degli ismaeliti giace non solo nel suo essere il primo trattato sostanziale dell'Islam da parte di un grande studioso cristiano, ma anche nella sua fondamentale influenza sulle successive risposte cristiane all'Islam.
Anche se il termine "eresia" in questo contesto deve essere compreso in un senso molto più ampio di quanto non si intenda di solito, Janosik sottolinea il fatto che Giovanni di Damasco non considerava le credenze degli "Ismaeliti" come un sistema di credenze separato, come Il manicheismo, ma piuttosto come una distorsione della verità cristiana, come indicato dal suo accenno alle conversazioni del "falso profeta chiamato Mamed" con "un monaco ariano".
Janosik giustamente sottolinea che i moderni lettori devono ricordare che "in quel momento non c'erano riferimenti a una religione universale chiamata Islam, ma piuttosto che il gruppo di conquistatori, chiamato Ismaeliti, Saraceni o Agarenes, sposò convinzioni e tradizioni che sembravano essere estrazioni distorte dalle due maggiori religioni dell'area, ebraismo e cristianesimo "(p. 98). I prossimi due capitoli trattano la Disputa tra un Saraceno e un cristiano, la cui paternità rimane incerta. Sono sopravvissute diverse recensioni del lavoro, che differiscono molto l'una dall'altra. Janosik dedica il capitolo sette alla revisione del dibattito sulla domanda, concludendo che "sembra giustificato affermare che la forma finale della Disputa che oggi abbiamo ricavato da dialoghi scritti realmente da Giovanni di Damasco e dialoghi trasmessi oralmente che sono stati raccolti dentro un testo "composito" (p.136).
Il capitolo otto analizza il contenuto della Disputa, che è stato apparentemente scritto come un manuale per gli apologeti cristiani: frasi come "Quando il Saracino ti dice ..." appaiono diverse volte. Il capitolo nove discute la dottrina trinitaria di Giovanni di Damasco nel tentativo di accertare se L'interazione apologetica di Giovanni di Damasco con l'inizio delle credenze islamiche avesse contribuito a plasmare il modo in cui ha presentato la dottrina ortodossa della Trinità. Janosik confronta e contrasta la presentazione di Giovanni di Damasco sulla Trinità in 'Un accurato riassunto della fede ortodossa', la terza parte della Fonte della conoscenza con la sua trattazione sulla Trinità nelle sue dissertazioni sull'Islam. Janosik propone anche quella contro la polemica di Giovanni di Damasco sugli iconoclasti, i monofisiti, i nestoriani e i manichei bizantini dovrebbero essere visti come argomenti contro Islam, il quale era "Il vero sfidante" a causa della sua " Continua crescita e della posizione dominante" (pagina 191).
Janosik conclude che gli scritti 'teologici e apologetici' di Giovanni di Damasco furono sviluppati in sequenza: "l'apologetica di Giovanni scaturiva dalla sua teologia ed egli ha sviluppato la sua teologia per gettare le basi per le sue apologetiche "(p.77).
Capitolo dieci si concentra sullo sviluppo dell'approccio apologetico di Giovanni di Damasco, che Janosik descrive come composto da tre parti in sequenza: "Nella prima Giovanni spiega cosa credono gli Ismaeliti, poi egli confronta quelle credenze con le Sacre Scritture cristiane e guida a ragionare sulla dottrina. Alla fine, confuta le credenze musulmane e sostiene che sono inferiori e irrazionali in paragone alla dottrina cristiana " (pagina 203). Secondo Janosik, anche se l'enfasi di Giovanni di Damasco stava rafforzando la verità del cristianesimo negli occhi dei suoi lettori cristiani oltre che offrire argomenti dettagliati contro la nuova "eresia", egli nondimeno, ha fornito ai suoi lettori argomenti per difendere la loro fede da una critica musulmana. Il capitolo undici esplora l’apologetica dei successori di Giovanni di Damasco nel mondo dell'Islam. Il capitolo si concentra su tre figure - Theodore Abū Qurra († circa 825), patriarca Timoteo I (morto nell'823) e "Abd al-Masīḥ b. Isḥāq al-Kindī (pseudonimo, nono secolo) – al fine di dimostrare che il carattere dei loro approcci apologetici era influenzato da Giovanni di Damasco, in particolare per quanto riguarda la loro difesa della Trinità. Allo stesso tempo, questi autori hanno portato un'ulteriore contestualizzazione dell'approccio apologetico di Giovanni cercando di basare le prospettive cristiane sul Qur'ā insegnando bene ed esprimere la dottrina cristiana nelle categorie filosofiche e teologiche condivise dai loro contemporanei musulmani. Infine, nell'ultimo capitolo, Janosik ci offre i suoi pensieri conclusivi. Egli elogia l'interazione tra gli scritti teologici e gli sforzi apologetici di Giovanni di Damasco nei confronti di guardare all'Islam come un modello "per noi "(p 251).
Nella prefazione al libro, Peter G. Riddell, ex direttore del Center for Islamic Studies e Christian-Muslim Relations presso la London School of Theology, sottolinea la natura "puntuale" del libro di Janosik, affermando che "i lettori di questo lavoro saranno" equipaggiati non solo con approfondimenti sulla storia paleocristiana ma anche con strumenti per rispondere alla sfida dell'Islam alla chiesa oggi "(XII). Di questa recensione mi chiedo, tuttavia, se L'approccio apologetico di Giovanni di Damasco, che Janosik riassume nei seguenti tre verbi: capire, difendere e confutare, è il miglior modello per i cristiani di oggi per ingaggiare la sfida delle nostre società sempre più multiculturali e multireligiose. In una sezione intitolata, "Le debolezze dell'approccio di Giovanni" (p.281), lo stesso Janosik sottolinea come lo scrittore Damasceno non era interessato a cercare un terreno comune con i musulmani, o nel coinvolgerli in un serio scambio intellettuale. Né ha istruito i suoi lettori cristiani in modo da raggiungere i musulmani e rendergli testimonianza. Questo recensore si rammarica del fatto che alcuni di questi punti non siano stati ripresi nel capitolo conclusivo del libro. Come disse: Janosik dovrebbe essere ringraziato per aver fornito una presentazione leggibile e colta degli scritti sull'Islam di Giovanni di Damasco.
Diego Sarrò CUCARELLA
Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici
http://www.pisai.it/
Tradotto dall'inglese. Vedi originale QUI
Informazioni prese da Santi e Beati, dal bolg di Leonardo Tondelli, Wikipedia, enciclopedia Treccani e Academia.edu