LEVI
LEVI (ebraico לֵוִי (Lewi o Levi), che significa "affezionato" oppure "che si associa [a qualcuno]" (Nm 18, 2).
Levi è il terzo figlio del patriarca Giacobbe e di Lia, che lo chiamò così perché disse: "Questa volta mio marito mi si affezionerà, perché gli ho partorito tre figli". Per questo lo chiamò Levi (Gen 29, 34). Levi è il capostipite della tribù israelitica dei Leviti.
Giacobbe, quando benedisse i suoi figli sul letto di morte, ricordò con amarezza la violenza perpetrata nei confronti dei sichemiti da Levi insieme a Simeone, in seguito alla violenza subita da Dina: “Simeone e Levi sono fratelli, strumenti di violenza sono i loro coltelli. Nel loro conciliabolo non entri l'anima mia, al loro convegno non si unisca il mio cuore, perché nella loro ira hanno ucciso gli uomini e nella loro passione hanno mutilato i tori. Maledetta la loro ira, perché violenta, e la loro collera, perché crudele! Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele.” (Gen 49, 5-7).
I Leviti. I sacerdoti, dediti all'officio del culto di YHWH, potevano appartenere solo a questa tribù. Secondo la tradizione fu offerto come tributo al Signore dal padre Giacobbe, per questo YHWH lo benedisse e decretò che i suoi discendenti sarebbero stati prescelti per essere Suoi ministri sulla terra, come gli angeli sono ministri del Signore in Cielo. Infatti, quando il Signore parlò a Mosè sul monte Sinai, disse: “Ecco, io ho scelto i leviti tra gli Israeliti al posto di ogni primogenito che nasce per primo dal seno materno tra gli Israeliti; i leviti saranno miei.” (Nm 3, 11-12)
Alla discendenza di Levi appartennero i fratelli Mosè e Aronne. Ma se Mosè fu il reggente delle tribù ebraiche nel loro formarsi in popolo, i Leviti ebbero, nella storia seguitane, mansioni esclusivamente cultuali: il sacerdozio, la famiglia di Aronne (Esodo, Cap. 28 e 29), le altre, la cura e la gestione del tabernacolo nel peregrinare nel deserto prima (Nm, 1, 50; 3, 6-10) e poi le mansioni secondarie nel tempio.
Il sacerdozio giudaico affidato ai leviti ebbe un valore effettivo all'unità del tempio sul Sion, ed ebbe a volte condizioni economiche fiorenti, ma nella maggior parte della loro storia i Leviti ebbero una sorte precaria e, spesso, di povertà: tanto che nel Pentateuco si raccomanda spesso di essere generosi nei loro confronti, come verso gli orfani e le vedove.
Venendo dalla penisola del Sinai con le tribù israelite, riunite intorno a Mosè, uniti da un'unica divinità che diviene centro e vincolo nazionale, i Leviti sono naturalmente più stretti ad essa e al suo culto. I fasti della loro antica fedeltà a YHWH sono esaltati nella tradizione familiare: con le spade in mano si erano lanciati contro gli adoratori del vitello d'oro (Es 32, 25-29); e Pinchas aveva trapassato con una lancia una coppia prevaricatrice (Nm 25, 7-9). L'arca, che fu sempre unica in Israele, prima della ricostruzione del tempio era da essi portata in battaglia come segno della presenza e dell'aiuto di YHWH, e, come la tenda (tabernacolo) in cui era riposta, veniva da essi custodita con una continuità che non venne meno se non con le vicende dell'arca stessa. Però essi stessi furono chiamati anche altrove: così un Levita che abitava come straniero (gher) nella tribù di Giuda (Gdc 17, 7; 18, 30), si pose al servizio di culto presso il ricco efraimita Mica, ed è poi invitato a Dan, dove crea un santuario che con quello di Betel sarà tra i centri principali religiosi del regno delle dieci tribù. Egli, delle cui vicende si narra un fatto mostruoso che diede poi origine allo sterminio della tribù di Beniamino (Cfr. Giudici, Cap. 19 - 20 - 21), fu accolto favorevolmente dai Daniti, perché in possesso di una tradizione cultuale e forse anche di una legittimità almeno apparente, tale da donare importanza al santuario da lui diretto.
Nel primo periodo dei re, i Leviti appaiono nel trasferimento dell'arca per la fuga di David dinnanzi ad Assalonne (2Sam 15, 24-29); e nel tempio di Salomone (1Re 8, 1-13). Obed-Edom, presso cui fu depositata l'arca in Gerusalemme, era pure levita (1Cr 15, 18-25).
Durante l'esilio in Babilonia, Ezechiele, rimprovera duramente l'idolatria diffusa tra sacerdoti e Leviti (Ez 8, 1-18), e nell'ultima visione del tempio ricostruito su piani smisuratamente ampliati, abbozzando una legislazione del periodo messianico ammette quali unici sacerdoti i figli della famiglia di Sadoc, di cui testimonia la continua fedeltà a YHWH (Ez 44, 15-16), mentre i Leviti i quali servirono ai diversi Baal locali sono retrocessi ai servizi inferiori del tempio (Ez 44, 10-14).
Alcuni critici attribuiscono anzi ad Ezechiele e all'influenza dei suoi scritti la distinzione stessa di sacerdoti sacrificatori e di Leviti, cui è consentita solo una parte secondaria e dipendente del culto. Quando però Ciro dà ai Giudei deportati in Babilonia la libertà del rimpatrio, si ricostruiscono le liste genealogiche delle diverse famiglie a base dei rispettivi diritti e interessi civili e territoriali, e in esse appaiono nettamente distinte famiglie di sacerdoti, di Leviti, di cantori e di netinei (servi pagani donati al tempio). Quella divisione di uffici doveva essere anteriore all'esilio poiché le condizioni delle diverse classi addette al culto s'erano trasformate in diritti. Bisogna risalire almeno al tempo del re Giosia, quando il culto di nuovo s'accentrò vigorosamente, e i privilegi delle famiglie sacerdotali obliterati nella molteplicità dei santuari e ancor più nelle numerose sedi cultuali idolatriche, dovettero venire rievocati e rimessi in valore. Il rilievo dato allora al sacerdozio rimasto fedele era spontaneo risultato della prevalenza avuta dalla tendenza accentratrice su quella decentratrice del culto, quando non fosse un castigo per i Leviti infedeli alla religione nazionale.
Ma la distinzione di classi e di privilegi doveva essere più antica, non solo per la complessità raggiunta dal culto d'Israele con conseguente divisione di mansioni, ma dal sistema stesso tribalizio in cui emergeva costantemente con speciali diritti e dominio una particolare famiglia.
Il sistema ereditario delle persone addette al culto aumentò il numero di sacerdoti e di Leviti semplici a cifre elevatissime. Al sorgere del cristianesimo i sacerdoti sono divisi in 24 classi, rispondenti a diversi gruppi familiari, la cui organizzazione è fissata nel Talmud jer. (Taanith, IV, fol. 68). Essi servivano a turno, come risulta anche dal Vangelo (Luca 1, 8). Nelle liste dei rimpatriati dall'esilio babilonese le famiglie sacerdotali contano 4289 uomini (Esdra 2, 36-39; Neemia 7, 39-42; in Neemia 7, 1-7 per il tempo di Zorobabele sono enumerati 22 gruppi sacerdotali). Per il periodo posteriore non si hanno cifre.
Per i Leviti le liste dei rimpatriati sono molto inferiori: Leviti propriamente detti 74, "cantori" 128 e "portieri" 139 (Esdra 2, 40-58). Ma non si può dedurre che il numero fosse realmente limitatissimo. La misera condizione giuridica ed economica, cui erano astretti, senza che vi supplisse un forte movente ideale per la materialità stessa dei loro uffici, dovette trattenerne la maggior parte in Babilonia, dove s'erano collocati: n'è buona conferma il testo di Esdra 2, 1-70. Per il tempo di David in 1Cr 23, 9, si ha invece una cifra complessiva di 38.000. Per il periodo dell'esodo si vedano le cifre in Nm 3, 22-34. Dopo l'esilio i semplici Leviti, sminuiti di numero in Palestina e poveri d'organizzazione, perdono sempre più d'importanza sociale e religiosa. Anch'essi erano divisi in classi o gruppi gentilizi: 17 famiglie in Nehemia 10, 10-14 , ma 24 rispondenti alle sacerdotali secondo le Cronache, come nel periodo cristiano (Fl. Gius., Antiq., VII, 14, 7; Taanith, IV, 2). Per la consacrazione, uffici e diritti dei sacerdoti e Leviti, v. levitico.
La distruzione del tempio di Gerusalemme fatta da Tito nell'anno 70 tolse ogni privilegio ai Leviti e ai sacerdoti, data la legge dell'unità assoluta del santuario fissato sul Sion, cui Israele tenacemente s'attenne. Chiusa l'era del sacerdozio ebraico, sacerdoti e Leviti furono designati con preferenza al culto sinagogale, essenzialmente diverso dai loro antichi ministeri sacrificali, e si cercarono una posizione indipendente come gli altri figli d'Israele.
L'importanza del sacerdozio levitico nella storia dell'idea e della vita religiose è certamente minore di quella del ministero dei profeti, fioriti per vocazione personale dal sec. IX al V a. C. Il sacerdozio ebraico, come quelli pagani, non ebbe, a differenza di quello cristiano, missione d'istruzione o formazione religiosa, ma essenzialmente di culto. I Leviti dovevano però insegnare al popolo la legge (Lv 10, 10-11; Dt 33, 9-10). Parve in tal modo che vi fosse un antagonismo tra profeti e sacerdozio, valutando quelli meno di questi il culto esteriore di cui facevano professione. Ma contro il sacerdozio i profeti non parlarono se non quando esso deviò, dando al popolo l'illusione che bastassero le offerte dei sacrifici per rendersi accetti a Dio. Così parlò Amos contro il santuario di Betel, ed Ezechiele contro i Leviti diventati ministri d'idolatria e che illudevano con speranze menzognere la nazione privilegiata del santuario del Sion. In realtà il sacerdozio levitico, consacratosi a Dio "suo retaggio", lasciando a parte i tralignamenti dovuti a influenza d'ambiente o a ragioni economiche, ebbe il merito di mantenere fedeltà all'antica religione di YHWH, nelle particolarità sue di monoteismo e di spiritualità. Si deve ad esso lo sforzo continuato di accentrare il culto in Israele, perché fosse espressione comune della fede nell'unico Dio. Né mancarono i profeti d'origine levitica, quali Geremia ed Ezechiele. Le invettive non rare negli scritti profetici contro il materialismo del culto devono avere un'interpretazione mitigata, se consideriamo la parte, che appare nei nuovi studi sempre più grande e viva, del Salterio nel servizio religioso di Israele. Un culto, vivificato - almeno nel suo periodo migliore - dalle più profonde e sincere liriche religiose che mai siano uscite da cuore umano, doveva avere un'influenza tutt'altro che esigua nella formazione dell'anima religiosa nazionale.
Nella divisione della terra conquistata di Canaan la tribù di Levi e conseguentemente i leviti, non ebbero una propria parte di eredità. "Il Signore è la loro parte, la loro eredità", secondo la espressiva frase biblica (Nm 3, 11-12; 18, 20; Dt 10, 9; 18, 2). Essi infatti non esercitano né la pastorizia (se non limitatamente per uso familiare nel territorio attiguo alla città abitata) né l'agricoltura o altra attività lucrosa, ma addetti al culto per tradizione familiare e per legge vivono dei proventi del santuario, di offerte volontarie e di diritti di culto che la consuetudine e la legge vengono determinando, e di cui si trovano minuziose indicazioni nel Levitico e nel Deuteronomio. Sono però loro attribuite dalla legge, ma senza che siano loro riservate, città in numero di 48, con una zona di 1000 cubiti in giro per i loro greggi e armenti (Nm 35, 2-8; Gs 21; 1Cr 6, 54-81); alcune possedute in realtà solo temporaneamente e ad epoca tardiva. Sei fra esse servono assieme da luogo di rifugio, dove cioè può scampare senza poter esserne estratto l'omicida in attesa del giudizio della sua colpevolezza.
Nella visione di Giovanni in Apocalisse al capitolo 7 la tribù di Levi è collocata all'ottavo posto nell'elenco dei 144.000 segnati, provenienti da ogni tribù dei figli di Israele (Ap 7, 7).
La maggior parte del testo è di Leone Tondelli ed è tratto dal sito della Treccani (Vedi QUI)
Altri riferimenti da Concordanza pastorale della Bibbia
Alla discendenza di Levi appartennero i fratelli Mosè e Aronne. Ma se Mosè fu il reggente delle tribù ebraiche nel loro formarsi in popolo, i Leviti ebbero, nella storia seguitane, mansioni esclusivamente cultuali: il sacerdozio, la famiglia di Aronne (Esodo, Cap. 28 e 29), le altre, la cura e la gestione del tabernacolo nel peregrinare nel deserto prima (Nm, 1, 50; 3, 6-10) e poi le mansioni secondarie nel tempio.
Il sacerdozio giudaico affidato ai leviti ebbe un valore effettivo all'unità del tempio sul Sion, ed ebbe a volte condizioni economiche fiorenti, ma nella maggior parte della loro storia i Leviti ebbero una sorte precaria e, spesso, di povertà: tanto che nel Pentateuco si raccomanda spesso di essere generosi nei loro confronti, come verso gli orfani e le vedove.
Venendo dalla penisola del Sinai con le tribù israelite, riunite intorno a Mosè, uniti da un'unica divinità che diviene centro e vincolo nazionale, i Leviti sono naturalmente più stretti ad essa e al suo culto. I fasti della loro antica fedeltà a YHWH sono esaltati nella tradizione familiare: con le spade in mano si erano lanciati contro gli adoratori del vitello d'oro (Es 32, 25-29); e Pinchas aveva trapassato con una lancia una coppia prevaricatrice (Nm 25, 7-9). L'arca, che fu sempre unica in Israele, prima della ricostruzione del tempio era da essi portata in battaglia come segno della presenza e dell'aiuto di YHWH, e, come la tenda (tabernacolo) in cui era riposta, veniva da essi custodita con una continuità che non venne meno se non con le vicende dell'arca stessa. Però essi stessi furono chiamati anche altrove: così un Levita che abitava come straniero (gher) nella tribù di Giuda (Gdc 17, 7; 18, 30), si pose al servizio di culto presso il ricco efraimita Mica, ed è poi invitato a Dan, dove crea un santuario che con quello di Betel sarà tra i centri principali religiosi del regno delle dieci tribù. Egli, delle cui vicende si narra un fatto mostruoso che diede poi origine allo sterminio della tribù di Beniamino (Cfr. Giudici, Cap. 19 - 20 - 21), fu accolto favorevolmente dai Daniti, perché in possesso di una tradizione cultuale e forse anche di una legittimità almeno apparente, tale da donare importanza al santuario da lui diretto.
Nel primo periodo dei re, i Leviti appaiono nel trasferimento dell'arca per la fuga di David dinnanzi ad Assalonne (2Sam 15, 24-29); e nel tempio di Salomone (1Re 8, 1-13). Obed-Edom, presso cui fu depositata l'arca in Gerusalemme, era pure levita (1Cr 15, 18-25).
Durante l'esilio in Babilonia, Ezechiele, rimprovera duramente l'idolatria diffusa tra sacerdoti e Leviti (Ez 8, 1-18), e nell'ultima visione del tempio ricostruito su piani smisuratamente ampliati, abbozzando una legislazione del periodo messianico ammette quali unici sacerdoti i figli della famiglia di Sadoc, di cui testimonia la continua fedeltà a YHWH (Ez 44, 15-16), mentre i Leviti i quali servirono ai diversi Baal locali sono retrocessi ai servizi inferiori del tempio (Ez 44, 10-14).
Alcuni critici attribuiscono anzi ad Ezechiele e all'influenza dei suoi scritti la distinzione stessa di sacerdoti sacrificatori e di Leviti, cui è consentita solo una parte secondaria e dipendente del culto. Quando però Ciro dà ai Giudei deportati in Babilonia la libertà del rimpatrio, si ricostruiscono le liste genealogiche delle diverse famiglie a base dei rispettivi diritti e interessi civili e territoriali, e in esse appaiono nettamente distinte famiglie di sacerdoti, di Leviti, di cantori e di netinei (servi pagani donati al tempio). Quella divisione di uffici doveva essere anteriore all'esilio poiché le condizioni delle diverse classi addette al culto s'erano trasformate in diritti. Bisogna risalire almeno al tempo del re Giosia, quando il culto di nuovo s'accentrò vigorosamente, e i privilegi delle famiglie sacerdotali obliterati nella molteplicità dei santuari e ancor più nelle numerose sedi cultuali idolatriche, dovettero venire rievocati e rimessi in valore. Il rilievo dato allora al sacerdozio rimasto fedele era spontaneo risultato della prevalenza avuta dalla tendenza accentratrice su quella decentratrice del culto, quando non fosse un castigo per i Leviti infedeli alla religione nazionale.
Ma la distinzione di classi e di privilegi doveva essere più antica, non solo per la complessità raggiunta dal culto d'Israele con conseguente divisione di mansioni, ma dal sistema stesso tribalizio in cui emergeva costantemente con speciali diritti e dominio una particolare famiglia.
Il sistema ereditario delle persone addette al culto aumentò il numero di sacerdoti e di Leviti semplici a cifre elevatissime. Al sorgere del cristianesimo i sacerdoti sono divisi in 24 classi, rispondenti a diversi gruppi familiari, la cui organizzazione è fissata nel Talmud jer. (Taanith, IV, fol. 68). Essi servivano a turno, come risulta anche dal Vangelo (Luca 1, 8). Nelle liste dei rimpatriati dall'esilio babilonese le famiglie sacerdotali contano 4289 uomini (Esdra 2, 36-39; Neemia 7, 39-42; in Neemia 7, 1-7 per il tempo di Zorobabele sono enumerati 22 gruppi sacerdotali). Per il periodo posteriore non si hanno cifre.
Per i Leviti le liste dei rimpatriati sono molto inferiori: Leviti propriamente detti 74, "cantori" 128 e "portieri" 139 (Esdra 2, 40-58). Ma non si può dedurre che il numero fosse realmente limitatissimo. La misera condizione giuridica ed economica, cui erano astretti, senza che vi supplisse un forte movente ideale per la materialità stessa dei loro uffici, dovette trattenerne la maggior parte in Babilonia, dove s'erano collocati: n'è buona conferma il testo di Esdra 2, 1-70. Per il tempo di David in 1Cr 23, 9, si ha invece una cifra complessiva di 38.000. Per il periodo dell'esodo si vedano le cifre in Nm 3, 22-34. Dopo l'esilio i semplici Leviti, sminuiti di numero in Palestina e poveri d'organizzazione, perdono sempre più d'importanza sociale e religiosa. Anch'essi erano divisi in classi o gruppi gentilizi: 17 famiglie in Nehemia 10, 10-14 , ma 24 rispondenti alle sacerdotali secondo le Cronache, come nel periodo cristiano (Fl. Gius., Antiq., VII, 14, 7; Taanith, IV, 2). Per la consacrazione, uffici e diritti dei sacerdoti e Leviti, v. levitico.
La distruzione del tempio di Gerusalemme fatta da Tito nell'anno 70 tolse ogni privilegio ai Leviti e ai sacerdoti, data la legge dell'unità assoluta del santuario fissato sul Sion, cui Israele tenacemente s'attenne. Chiusa l'era del sacerdozio ebraico, sacerdoti e Leviti furono designati con preferenza al culto sinagogale, essenzialmente diverso dai loro antichi ministeri sacrificali, e si cercarono una posizione indipendente come gli altri figli d'Israele.
L'importanza del sacerdozio levitico nella storia dell'idea e della vita religiose è certamente minore di quella del ministero dei profeti, fioriti per vocazione personale dal sec. IX al V a. C. Il sacerdozio ebraico, come quelli pagani, non ebbe, a differenza di quello cristiano, missione d'istruzione o formazione religiosa, ma essenzialmente di culto. I Leviti dovevano però insegnare al popolo la legge (Lv 10, 10-11; Dt 33, 9-10). Parve in tal modo che vi fosse un antagonismo tra profeti e sacerdozio, valutando quelli meno di questi il culto esteriore di cui facevano professione. Ma contro il sacerdozio i profeti non parlarono se non quando esso deviò, dando al popolo l'illusione che bastassero le offerte dei sacrifici per rendersi accetti a Dio. Così parlò Amos contro il santuario di Betel, ed Ezechiele contro i Leviti diventati ministri d'idolatria e che illudevano con speranze menzognere la nazione privilegiata del santuario del Sion. In realtà il sacerdozio levitico, consacratosi a Dio "suo retaggio", lasciando a parte i tralignamenti dovuti a influenza d'ambiente o a ragioni economiche, ebbe il merito di mantenere fedeltà all'antica religione di YHWH, nelle particolarità sue di monoteismo e di spiritualità. Si deve ad esso lo sforzo continuato di accentrare il culto in Israele, perché fosse espressione comune della fede nell'unico Dio. Né mancarono i profeti d'origine levitica, quali Geremia ed Ezechiele. Le invettive non rare negli scritti profetici contro il materialismo del culto devono avere un'interpretazione mitigata, se consideriamo la parte, che appare nei nuovi studi sempre più grande e viva, del Salterio nel servizio religioso di Israele. Un culto, vivificato - almeno nel suo periodo migliore - dalle più profonde e sincere liriche religiose che mai siano uscite da cuore umano, doveva avere un'influenza tutt'altro che esigua nella formazione dell'anima religiosa nazionale.
Nella divisione della terra conquistata di Canaan la tribù di Levi e conseguentemente i leviti, non ebbero una propria parte di eredità. "Il Signore è la loro parte, la loro eredità", secondo la espressiva frase biblica (Nm 3, 11-12; 18, 20; Dt 10, 9; 18, 2). Essi infatti non esercitano né la pastorizia (se non limitatamente per uso familiare nel territorio attiguo alla città abitata) né l'agricoltura o altra attività lucrosa, ma addetti al culto per tradizione familiare e per legge vivono dei proventi del santuario, di offerte volontarie e di diritti di culto che la consuetudine e la legge vengono determinando, e di cui si trovano minuziose indicazioni nel Levitico e nel Deuteronomio. Sono però loro attribuite dalla legge, ma senza che siano loro riservate, città in numero di 48, con una zona di 1000 cubiti in giro per i loro greggi e armenti (Nm 35, 2-8; Gs 21; 1Cr 6, 54-81); alcune possedute in realtà solo temporaneamente e ad epoca tardiva. Sei fra esse servono assieme da luogo di rifugio, dove cioè può scampare senza poter esserne estratto l'omicida in attesa del giudizio della sua colpevolezza.
Nella visione di Giovanni in Apocalisse al capitolo 7 la tribù di Levi è collocata all'ottavo posto nell'elenco dei 144.000 segnati, provenienti da ogni tribù dei figli di Israele (Ap 7, 7).
La maggior parte del testo è di Leone Tondelli ed è tratto dal sito della Treccani (Vedi QUI)
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