TORAH O PENTATEUCO
Termini e definizioni della Torah |
Torah: Insegnamento, dottrina, deriva dalla radice del verbo “Horaà” = insegnare.
Khumàsh: Ogni singolo Libro della Torah e comunque il termine definisce anche l’insieme dei cinque Libri.
Sedarim: Capitoli in cui è divisa la Torah nell’edizione Palestinese che ne conta 155 oppure 156, quanti erano anticamente i Salmi, prima della riforma Masoretica.
Parashot: Capitoli in cui è divisa la Torah nell’edizione Babilonese che ne conta 54.
Khumàsh: Ogni singolo Libro della Torah e comunque il termine definisce anche l’insieme dei cinque Libri.
Sedarim: Capitoli in cui è divisa la Torah nell’edizione Palestinese che ne conta 155 oppure 156, quanti erano anticamente i Salmi, prima della riforma Masoretica.
Parashot: Capitoli in cui è divisa la Torah nell’edizione Babilonese che ne conta 54.
Si può tradurre la Torah?
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Commento di Rabbi Shalom Hazan
Domanda:
Perché si digiuna per rammaricarsi della traduzione dei settanta, che fu fatta da maestri ebrei e che fu letta dagli ebrei di lingua greca, mentre il Targum in aramaico di Onkelos fu accolto positivamente dal mondo ebraico?
La domanda si riferisce alla famosa traduzione "versione dei Settanta" (Septuaginta in latino) commissionata dal sovrano egiziano Tolomeo II Filadelfo (regno 285-246 a.e.m.) e a quella del convertito all'ebraismo Onkelos, parente dell'imperatore Adriano (secondo altri, parente di Tito).
Risposta:
In realtà la Torà (scritta) è intraducibile. Chiunque vede la Torà scritta, formata semplicemente da delle lettere (solo consonanti!) sulla pergamena, capisce che servono degli strumenti per accedere al suo significato.
Alcuni di questi strumenti fanno parte del testo ma sono indicati (almeno in origine) solamente dalla tradizione trasmessa oralmente. Tra cui le vocali (essenziali perché le stesse lettere-parole senza le vocali potrebbero avere significati diversi) e le note del canto (che aiutano moltissimo soprattutto ad inserire punteggiatura ma anche in moltissimi casi a contestualizzare meglio e capire il senso). Anche i "taghìn" (le coroncine sulle lettere) hanno il loro significato.
Questo vuol dire che una traduzione, qualsiasi traduzione, deve necessariamente prendere in considerazione questi elementi che non sono scritti sul testo. In altre parole, la traduzione deve considerare la Torà Orale, che è la chiave di accesso alla Torà scritta.
Se la traduzione non prende ciò in considerazione, non corrisponde al testo originale.
Il problema è che anche una traduzione che dovesse prendere in considerazione solo questi elementi, sarebbe comunque estremamente carente in quanto vi sono altri elementi da tenere presente.
La Torà ha un proprio modo di esprimersi. Innanzitutto la Torà usa una forma breve, quasi stenografica, e quindi, ovviamente, non può essere tradotta così come è. Nella lettura dell'originale, seppur abbia questa forma, siamo aiutati dagli elementi sopra indicati per capire il senso.
Inoltre, la Torà ha delle regole tra cui:
- Non esistono ripetizioni. Quando leggiamo nella traduzione qualcosa che sembra essere ripetizione vuol dire che ci manca qualcosa.
- Vi sono delle parole uguali che possono assumere significati diversi.
- Sinonimi, nella lingua sacra, sono praticamente inesistenti. Parole diverse che sembrano indicare soggetti simili, indicano in realtà diversi aspetti del soggetto o verbo che sia.
- A volte i versetti estremizzano la stenografia, lasciando addirittura dei versetti "stroncati" a metà quando la restante parte dovrebbe essere ovvia a chi legge (e sicuramente lo sarebbe se avesse gli elementi di corretta lettura in mano!)
Tutti questi ed altri elementi hanno fatto sì che, nella mancanza di conoscenza o di rispetto di essi, sono nate delle traduzioni che in molti casi non hanno alcun senso. Troviamo parole uguali ma con significati diversi tradotti sempre nella stessa maniera con risultati devastanti. Soggetti uguali con nomi diversi con risultati simili. E così via.
Si potrebbe allungare molto ma per tornare alla domanda:
La traduzione dei 70 è stata commissionata da altri secondo dei loro criteri ovvero che la Torà dovrebbe essere stata tradotta come un qualsiasi libro, traducendo più o meno al letterale. In realtà però la Torà è intraducibile.
La traduzione è stata una tragedia perché ha praticamente chiuso la Torà al mondo, limitandola e dando vita a delle traduzione ancora peggiori.
Tutto il mondo finora legge queste traduzioni e le loro varie evoluzioni, effettivamente leggendo un libro che però Torà non è.
In realtà, molte delle critiche che vengono fatte nei confronti della Bibbia hanno ragione. Solo che non è la Torà l'opera che stanno criticando, bensì una traduzione errata! (Ovviamente per la maggior parte non lo sanno).
La traduzione di Onkelos, d'altro canto, è stata preparata sotto la supervisione o su ispirazione degli insegnamenti dei più grandi Maestri della tradizione, ovvero di quelli che hanno da sempre conservato gli elementi originali e corretti di lettura della Torà (Rabbì Eli'ezer e Rabbì Yehshu'a).
Onkelos in realtà non è tanto una traduzione quanto un commento, che prende in considerazione tutti i suddetti elementi in una maniera sorprendentemente chiara e profonda al tempo stesso, fino a far diventare la sua traduzione uno degli elementi base per la comprensione della Torà e fino al punto che i Maestri hanno dichiarato che quanto scritto da Onkelos era stato detto al Sinai (indicando quindi l'autenticità del suo commento-traduzione).
In realtà la "traduzione" di Onkelos è Torà Orale! Proprio perché non pretende di "tradurre" la Torà, ha la possibilità di rimanere fedele al senso originale.
Per concludere, qualche esempio:
Nella Parashà della settimana scorsa, Lech Lechà, D-o promette ad Avrahàm che gli avrebbe fatto nascere un figlio da Sarà. La reazione di Avrahàm è che cade sul volto e poi 'va-yitzchàk' (17:17). Verbo che normalmente è tradotto con ridere. Nella Parashà di questa settimana (7 Novembre 2014), Vayerà, quando Sarà sente dagli angeli la stessa promessa la Torà impiega lo stesso verbo 'va-tizchàk' (18:12).
Nel Onkelos notiamo subito che lo stesso verbo ha significati diversi. La prima volta traduce "gioì" e la seconda "rise". Avrahàm fu gioioso mentre Sarà rise incredula. (Il tutto è anche confermato dal rispettivo contesto).
Le false traduzioni non si sono resi conto di questa differenza.
Un altro esempio classico è alla fine di Bereshìt dove si parla della corruzione dell'umanità. Nel 6:2 e 6:4 si fa riferimento ai benè elohìm cosa che molti hanno tradotto con figli di dio. In realtà nel contesto non ha alcun senso, come molti altri versi tradotti male.
Come indicato da Onkelos, la traduzione corretta di elohìm in questo contesto non è un nome di D-o (e anche quando lo è ha un significato specifico; come indicato sopra non ci sono sinonimi), bensì semplicemente è un riferimento ai nobili, ai principi, insomma a chi comanda. La Torà dice che i loro figli facevano come gli pareva... (Per fortuna le edizioni italiane più moderne del mondo ebraico hanno corretto molti errori comuni.)
Un altro importantissimo aspetto del Targum Onkelos è il suo modo geniale di evitare l'antropomorfismo del quale sono afflitti le traduzioni che trasmettono il letterale. E' inutile sottolineare l'importanza di questo aspetto del Targum, con il quale ci insegna (ciò che era stato insegnato a lui) che quando la Torà usa termini come "la mano di D-o" e simile, non è mai stato inteso nel senso letterale.
Buono studio!
Rav Shalom
Commento di Rabbi Shalom Hazan
Domanda:
Perché si digiuna per rammaricarsi della traduzione dei settanta, che fu fatta da maestri ebrei e che fu letta dagli ebrei di lingua greca, mentre il Targum in aramaico di Onkelos fu accolto positivamente dal mondo ebraico?
La domanda si riferisce alla famosa traduzione "versione dei Settanta" (Septuaginta in latino) commissionata dal sovrano egiziano Tolomeo II Filadelfo (regno 285-246 a.e.m.) e a quella del convertito all'ebraismo Onkelos, parente dell'imperatore Adriano (secondo altri, parente di Tito).
Risposta:
In realtà la Torà (scritta) è intraducibile. Chiunque vede la Torà scritta, formata semplicemente da delle lettere (solo consonanti!) sulla pergamena, capisce che servono degli strumenti per accedere al suo significato.
Alcuni di questi strumenti fanno parte del testo ma sono indicati (almeno in origine) solamente dalla tradizione trasmessa oralmente. Tra cui le vocali (essenziali perché le stesse lettere-parole senza le vocali potrebbero avere significati diversi) e le note del canto (che aiutano moltissimo soprattutto ad inserire punteggiatura ma anche in moltissimi casi a contestualizzare meglio e capire il senso). Anche i "taghìn" (le coroncine sulle lettere) hanno il loro significato.
Questo vuol dire che una traduzione, qualsiasi traduzione, deve necessariamente prendere in considerazione questi elementi che non sono scritti sul testo. In altre parole, la traduzione deve considerare la Torà Orale, che è la chiave di accesso alla Torà scritta.
Se la traduzione non prende ciò in considerazione, non corrisponde al testo originale.
Il problema è che anche una traduzione che dovesse prendere in considerazione solo questi elementi, sarebbe comunque estremamente carente in quanto vi sono altri elementi da tenere presente.
La Torà ha un proprio modo di esprimersi. Innanzitutto la Torà usa una forma breve, quasi stenografica, e quindi, ovviamente, non può essere tradotta così come è. Nella lettura dell'originale, seppur abbia questa forma, siamo aiutati dagli elementi sopra indicati per capire il senso.
Inoltre, la Torà ha delle regole tra cui:
- Non esistono ripetizioni. Quando leggiamo nella traduzione qualcosa che sembra essere ripetizione vuol dire che ci manca qualcosa.
- Vi sono delle parole uguali che possono assumere significati diversi.
- Sinonimi, nella lingua sacra, sono praticamente inesistenti. Parole diverse che sembrano indicare soggetti simili, indicano in realtà diversi aspetti del soggetto o verbo che sia.
- A volte i versetti estremizzano la stenografia, lasciando addirittura dei versetti "stroncati" a metà quando la restante parte dovrebbe essere ovvia a chi legge (e sicuramente lo sarebbe se avesse gli elementi di corretta lettura in mano!)
Tutti questi ed altri elementi hanno fatto sì che, nella mancanza di conoscenza o di rispetto di essi, sono nate delle traduzioni che in molti casi non hanno alcun senso. Troviamo parole uguali ma con significati diversi tradotti sempre nella stessa maniera con risultati devastanti. Soggetti uguali con nomi diversi con risultati simili. E così via.
Si potrebbe allungare molto ma per tornare alla domanda:
La traduzione dei 70 è stata commissionata da altri secondo dei loro criteri ovvero che la Torà dovrebbe essere stata tradotta come un qualsiasi libro, traducendo più o meno al letterale. In realtà però la Torà è intraducibile.
La traduzione è stata una tragedia perché ha praticamente chiuso la Torà al mondo, limitandola e dando vita a delle traduzione ancora peggiori.
Tutto il mondo finora legge queste traduzioni e le loro varie evoluzioni, effettivamente leggendo un libro che però Torà non è.
In realtà, molte delle critiche che vengono fatte nei confronti della Bibbia hanno ragione. Solo che non è la Torà l'opera che stanno criticando, bensì una traduzione errata! (Ovviamente per la maggior parte non lo sanno).
La traduzione di Onkelos, d'altro canto, è stata preparata sotto la supervisione o su ispirazione degli insegnamenti dei più grandi Maestri della tradizione, ovvero di quelli che hanno da sempre conservato gli elementi originali e corretti di lettura della Torà (Rabbì Eli'ezer e Rabbì Yehshu'a).
Onkelos in realtà non è tanto una traduzione quanto un commento, che prende in considerazione tutti i suddetti elementi in una maniera sorprendentemente chiara e profonda al tempo stesso, fino a far diventare la sua traduzione uno degli elementi base per la comprensione della Torà e fino al punto che i Maestri hanno dichiarato che quanto scritto da Onkelos era stato detto al Sinai (indicando quindi l'autenticità del suo commento-traduzione).
In realtà la "traduzione" di Onkelos è Torà Orale! Proprio perché non pretende di "tradurre" la Torà, ha la possibilità di rimanere fedele al senso originale.
Per concludere, qualche esempio:
Nella Parashà della settimana scorsa, Lech Lechà, D-o promette ad Avrahàm che gli avrebbe fatto nascere un figlio da Sarà. La reazione di Avrahàm è che cade sul volto e poi 'va-yitzchàk' (17:17). Verbo che normalmente è tradotto con ridere. Nella Parashà di questa settimana (7 Novembre 2014), Vayerà, quando Sarà sente dagli angeli la stessa promessa la Torà impiega lo stesso verbo 'va-tizchàk' (18:12).
Nel Onkelos notiamo subito che lo stesso verbo ha significati diversi. La prima volta traduce "gioì" e la seconda "rise". Avrahàm fu gioioso mentre Sarà rise incredula. (Il tutto è anche confermato dal rispettivo contesto).
Le false traduzioni non si sono resi conto di questa differenza.
Un altro esempio classico è alla fine di Bereshìt dove si parla della corruzione dell'umanità. Nel 6:2 e 6:4 si fa riferimento ai benè elohìm cosa che molti hanno tradotto con figli di dio. In realtà nel contesto non ha alcun senso, come molti altri versi tradotti male.
Come indicato da Onkelos, la traduzione corretta di elohìm in questo contesto non è un nome di D-o (e anche quando lo è ha un significato specifico; come indicato sopra non ci sono sinonimi), bensì semplicemente è un riferimento ai nobili, ai principi, insomma a chi comanda. La Torà dice che i loro figli facevano come gli pareva... (Per fortuna le edizioni italiane più moderne del mondo ebraico hanno corretto molti errori comuni.)
Un altro importantissimo aspetto del Targum Onkelos è il suo modo geniale di evitare l'antropomorfismo del quale sono afflitti le traduzioni che trasmettono il letterale. E' inutile sottolineare l'importanza di questo aspetto del Targum, con il quale ci insegna (ciò che era stato insegnato a lui) che quando la Torà usa termini come "la mano di D-o" e simile, non è mai stato inteso nel senso letterale.
Buono studio!
Rav Shalom
IL PENTATEUCO
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Si comprendono sotto questa denominazione i primi cinque libri della Bibbia, chiamati nelle versioni dei Settanta e della Volgata Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deutoronomio.
Nel testo ebraico essi sono indicati con la prima parola di ciascun libro.
Bereshit, בְּרֵאשִׁית (In principio) - Shemot, שְׁמוֹת (Nomi) - Vayikra, וַיִּקְרָא (E chiamò) - Bamidbar, בְּמִדְבַּר (Nel deserto) - Devarim, דְּבָרִים (Parole)
La storia dell'origine del mondo e dei Patriarchi prima del diluvio; quella del diluvio, di Noè e dei suoi figli che popolarono nuovamente la terra; la storia di Abramo, progenitore del popolo ebreo e quella degli Ebrei dopo lui, fino alla morte di Giuseppe in terra d'Egitto, formano la materia contenuta nel Genesi.
L'uscita degli Ebrei dall'Egitto e i fatti avvenuti loro nel deserto durante quaranta anni ci sono narrati da Mosè nell'Esodo e nei Numeri.
Il Levitico è come un rituale, diretto specialmente ai Leviti e ai Sacerdoti: è il codice del culto esterno.
Il Deutoronomio o Seconda Legge, dato alla fine del soggiorno nel deserto, espone leggi già promulgate, ma con qualche ritocco, e adattate alle nuove condizioni di vita sedentaria, in cui doveva trovarsi fra poco il popolo in Palestina.
L'opinione degli esegeti e critici cattolici moderni è unanime nel riconoscere Mosè quale autore del Pentateuco. Essi appoggiano la loro tesi su questi argomenti speciali: la testimonianza di Gesù nel Vangelo di san Marco XII, 18-27: "Non avete letto nel libro di Mosè" e nel Vangelo di san Giovanni, V. 45 e ss.: "Non pensate che io (persona) debba accusarvi davanti al Padre; vostro accusatore è lo stesso Mosè nel quale ponete ogni speranza. Poiché se aveste creduto a Mosè, avreste creduto anche a me, perché "egli ha scritto di me". Ma se non credeste agli "scritti di lui", come potrete credere alle mie parole?". E sono oltre venti i passi neotestamentari in cui si attribuisce a Mosè un'attività letteraria, e altrettanti sono i passi attribuiti a Mosè nel Nuovo Testamento che si ritrovano nei diversi libri del Pentateuco.
La tradizione ebraica riconosce Mosè quale autore del Pentateuco. Questo anzitutto ci consta dalla traduzione dei Settanta, da Flavio Giuseppe, da Filone, dal Talmud.
I santi Padri e la Chiesa Cattolica convengono in questo riconoscimento.
I critici razionalisti moderni sostengono che il Pentateuco non sia opera di un solo scrittore, ma di più autori, ignoti, i cui scritti sarebbero stati fusi insieme da un compilatore assai posteriore a Mosè: si avrebbero diversi documenti:
1) il Jahvista, così detto dal nome di Jahvè che vi si riscontra quale nome di Dio, sarebbe il documento più antico che risale a circa il IX sec. a. C.
2) L'Elohista, così chiamato perché il nome di Dio appare sotto la forma di Elohim, sarebbe alquanto posteriore, non molto prima del 722 a. C.
3) Il Deuteronomista, ristretto alla quasi totalità del Deuteronomio (tranne 42, 48-52; e 34,1, 7-9 attribuiti al Codice Sacerdotale), sarebbe stato scritto poco prima della riforma religiosa fatta da re Giosia l'anno 621 a. C.
4) Il Codice Sacerdotale comprende principalmente le leggi liturgiche, tutto il Levitico, gran parte dei Numeri e parti più o meno lunghe dei tre altri libri. Si sarebbe formato durante l'esilio babilonese (586-538) e sarebbe stato messo in vigore l'anno 444 a. C. nella restaurazione di Esdra.
Questi vari scritti si riconoscerebbero: per il diverso impiego dei due nomi divini Jahvè ed Elohim; per alcuni contrasti di lingua e di stile; per alcune differenze nelle idee religiose e morali; nella valutazione del culto; nell'atteggiamento di fronte alla questione nazionale e politica; per le ripetizioni con antinomie, divergenze, talvolta contraddizioni, per la presenza di testi paralleli particolari nell'ambito di uno stesso racconto, costituiti dall'intreccio di due o più racconti originariamente distinti e poi fusi insieme da un redattore, ovvero costituiti da un racconto originario e da aggiunte più tarde. Ma, mentre il primo e il secondo argomento possono essere ammessi da chiunque senza necessità di dedurre che l'autore debba essere ritardato dopo i tempi di Mosè, autore sostanziale del Pentateuco, il terzo argomento è confutato dalle scoperte molto recenti di Ugarit (Ras Shamra). Nel secondo millennio a. C. vi erano in questa città della Siria molti usi liturgici, diversità di sacrifici, che i razionalisti ritardano al 444 a. C. Vi si rivela anche un senso di giustizia e di bontà che richiama le leggi del Deuteronomio.
Non vi è dunque ragione di credere che Mosè non abbia potuto avere questo spirito altamente religioso e questa esplicazione deuteronomistica della sua religiosità che esisteva prima della sua epoca presso una popolazione politeista proveniente dai confini della Palestina del sud. Il quarto e quinto argomento, benché contengano obbiezioni non facili, sono da spiegarsi con l'accettazione di fonti diverse che si completano a vicenda. Un critico che non abbia preconcetti filosofici può accettare con tranquillità il responso della Commissione Biblica che ammette diverse fonti per la composizione del Pentateuco e non esclude diversi redattori o segretari. A queste fonti attinse Mosè, autore principale o sostanziale dell'opera.