La Sindone
La Sindone di Torino
La Sindone di Torino, nota anche come Sacra Sindone o Santa Sindone, è un lenzuolo di lino conservato nel Duomo di Torino, sul quale è visibile l'immagine di un uomo che porta segni interpretati come dovuti a maltrattamenti e torture compatibili con quelli descritti nella passione di Gesù. La tradizione cristiana identifica l'uomo con Gesù e il lenzuolo con quello usato per avvolgerne il corpo nel sepolcro.
Il termine "sindone" deriva dal greco σινδών (sindon), che indicava un ampio tessuto, come un lenzuolo, e ove specificato poteva essere di lino di buona qualità o tessuto d'India. Anticamente "sindone" non aveva assolutamente un'accezione legata al culto dei morti o alla sepoltura, ma oggi il termine è ormai diventato sinonimo del lenzuolo funebre di Gesù.
Nel 1988, l'esame del carbonio 14 sulla Sindone, eseguito contemporaneamente e indipendentemente dai laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, ha datato la sindone in un intervallo di tempo compreso tra il 1260 e il 1390, periodo corrispondente all'inizio della storia della Sindone certamente documentata. Ciononostante, la sua autenticità continua a essere oggetto di fortissime controversie.
Le esposizioni pubbliche della Sindone sono chiamate ostensioni (dal latino ostendere, "mostrare"). Le ultime sono state nel 1978, 1998, 2000, 2010, 2013 (quest'ultima soltanto televisiva) e, più di recente, dal 19 aprile al 24 giugno 2015.
Ipotesi sul periodo antecedente il 1353
Tra i fautori dell'autenticità del lino quale il lenzuolo funebre di Gesù, risalente alla Terra di Israele del I secolo, non manca chi sostiene l'ipotesi secondo cui la Sindone di Torino sarebbe da identificare con il mandylion o "Immagine di Edessa", un'icona di Gesù molto venerata dai cristiani d'Oriente, scomparsa nel 1204 (questo spiegherebbe l'assenza di documenti che si riferiscano alla Sindone in tale periodo). In questo caso, occorrerebbe ipotizzare che il telo di Edessa, che è descritto come un fazzoletto, fosse esposto solo ripiegato più volte e in modo tale da mostrare unicamente l'immagine del volto.
Caratteristiche generali
Il lenzuolo
La Sindone è un lenzuolo di lino di colore giallo ocra, avente forma rettangolare di dimensioni di circa 441 cm x 111 cm. In corrispondenza di uno dei lati lunghi, il telo risulta tagliato e ricucito per tutta la lunghezza a otto centimetri dal margine.
Il lenzuolo è tessuto a mano con trama a spina di pesce e con rapporto ordito-trama di 3:1.
Il lenzuolo è cucito su un telo di supporto, pure di lino, delle stesse dimensioni: il supporto originale, applicato nel 1534, è stato sostituito nel 2002 con un telo simile più recente.
Le bruciature più vistose sono state causate dall'incendio scoppiato il 4 dicembre 1532 nella Sainte Chapelle di Chambéry, in cui la Sindone rischiò di essere distrutta. Un oggetto rovente (delle gocce d'argento fuso, oppure una parte del reliquiario) aprì nel lenzuolo numerosi fori di forma approssimativamente triangolare, disposti simmetricamente ai lati dell'immagine in quanto il lenzuolo era conservato ripiegato più volte su sé stesso. Nel 1534 le suore clarisse di Chambéry ripararono i danni cucendo sui fori delle pezze di tessuto e impunturando la Sindone su un telo di supporto della stessa grandezza. Nel 2002, in un intervento di restauro conservativo, tutti i rappezzi sono stati rimossi e il telo di supporto originale è stato sostituito con un altro più recente.
Altre bruciature, più piccole, formano quattro gruppi di fori approssimativamente circolari o lineari. Il colorito delle bruciature varia in ragione delle temperature alle quali furono esposti le parti di tessuti. In questo caso la Sindone doveva essere piegata in quattro (una volta nel senso della lunghezza e una nel senso della larghezza). Un'ipotesi per la loro formazione è che la Sindone venisse esposta vicino a delle torce accese. Non si conosce l'evento che li produsse ma fu certamente anteriore al 1516, poiché compaiono in una copia della Sindone dipinta in tale data e conservata a Lierre.
L'immagine
L'immagine frontale presente sulla Sindone nel negativo fotografico
Il lenzuolo riporta due immagini molto tenui che ritraggono un corpo umano nudo, a grandezza naturale, una di fronte (immagine frontale) e l'altra di schiena (immagine dorsale); sono allineate testa contro testa, separate da uno spazio che non reca tracce corporee. Sono di colore più scuro di quello del telo.
L'immagine appare essere la proiezione verticale della figura dell'Uomo della Sindone: le proporzioni del corpo sono infatti quelle che si osservano guardando una persona direttamente o in fotografia, mentre l'immagine ottenuta stendendo un lenzuolo a contatto col corpo dovrebbe apparire distorta, ad esempio il viso dovrebbe apparire molto più largo.
Il corpo raffigurato appare quello di un maschio adulto, con la barba e i capelli lunghi.
L'immagine è poco visibile a occhio nudo e può essere percepita solo a una certa distanza (uno-due metri, mentre avvicinandosi sembra scomparire). Come scoprì Secondo Pia nel 1898, l'immagine è "al negativo", cioè i chiaroscuri sono invertiti rispetto a quelli naturali: infatti essa appare come "positiva" sul negativo fotografico acquisito in luce visibile. Si noti però che l'immagine appare come "positiva" su un positivo fotografico acquisito nell'infrarosso (8-14 micrometri).
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La Sindone di Torino, nota anche come Sacra Sindone o Santa Sindone, è un lenzuolo di lino conservato nel Duomo di Torino, sul quale è visibile l'immagine di un uomo che porta segni interpretati come dovuti a maltrattamenti e torture compatibili con quelli descritti nella passione di Gesù. La tradizione cristiana identifica l'uomo con Gesù e il lenzuolo con quello usato per avvolgerne il corpo nel sepolcro.
Il termine "sindone" deriva dal greco σινδών (sindon), che indicava un ampio tessuto, come un lenzuolo, e ove specificato poteva essere di lino di buona qualità o tessuto d'India. Anticamente "sindone" non aveva assolutamente un'accezione legata al culto dei morti o alla sepoltura, ma oggi il termine è ormai diventato sinonimo del lenzuolo funebre di Gesù.
Nel 1988, l'esame del carbonio 14 sulla Sindone, eseguito contemporaneamente e indipendentemente dai laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, ha datato la sindone in un intervallo di tempo compreso tra il 1260 e il 1390, periodo corrispondente all'inizio della storia della Sindone certamente documentata. Ciononostante, la sua autenticità continua a essere oggetto di fortissime controversie.
Le esposizioni pubbliche della Sindone sono chiamate ostensioni (dal latino ostendere, "mostrare"). Le ultime sono state nel 1978, 1998, 2000, 2010, 2013 (quest'ultima soltanto televisiva) e, più di recente, dal 19 aprile al 24 giugno 2015.
Ipotesi sul periodo antecedente il 1353
Tra i fautori dell'autenticità del lino quale il lenzuolo funebre di Gesù, risalente alla Terra di Israele del I secolo, non manca chi sostiene l'ipotesi secondo cui la Sindone di Torino sarebbe da identificare con il mandylion o "Immagine di Edessa", un'icona di Gesù molto venerata dai cristiani d'Oriente, scomparsa nel 1204 (questo spiegherebbe l'assenza di documenti che si riferiscano alla Sindone in tale periodo). In questo caso, occorrerebbe ipotizzare che il telo di Edessa, che è descritto come un fazzoletto, fosse esposto solo ripiegato più volte e in modo tale da mostrare unicamente l'immagine del volto.
Caratteristiche generali
Il lenzuolo
La Sindone è un lenzuolo di lino di colore giallo ocra, avente forma rettangolare di dimensioni di circa 441 cm x 111 cm. In corrispondenza di uno dei lati lunghi, il telo risulta tagliato e ricucito per tutta la lunghezza a otto centimetri dal margine.
Il lenzuolo è tessuto a mano con trama a spina di pesce e con rapporto ordito-trama di 3:1.
Il lenzuolo è cucito su un telo di supporto, pure di lino, delle stesse dimensioni: il supporto originale, applicato nel 1534, è stato sostituito nel 2002 con un telo simile più recente.
Le bruciature più vistose sono state causate dall'incendio scoppiato il 4 dicembre 1532 nella Sainte Chapelle di Chambéry, in cui la Sindone rischiò di essere distrutta. Un oggetto rovente (delle gocce d'argento fuso, oppure una parte del reliquiario) aprì nel lenzuolo numerosi fori di forma approssimativamente triangolare, disposti simmetricamente ai lati dell'immagine in quanto il lenzuolo era conservato ripiegato più volte su sé stesso. Nel 1534 le suore clarisse di Chambéry ripararono i danni cucendo sui fori delle pezze di tessuto e impunturando la Sindone su un telo di supporto della stessa grandezza. Nel 2002, in un intervento di restauro conservativo, tutti i rappezzi sono stati rimossi e il telo di supporto originale è stato sostituito con un altro più recente.
Altre bruciature, più piccole, formano quattro gruppi di fori approssimativamente circolari o lineari. Il colorito delle bruciature varia in ragione delle temperature alle quali furono esposti le parti di tessuti. In questo caso la Sindone doveva essere piegata in quattro (una volta nel senso della lunghezza e una nel senso della larghezza). Un'ipotesi per la loro formazione è che la Sindone venisse esposta vicino a delle torce accese. Non si conosce l'evento che li produsse ma fu certamente anteriore al 1516, poiché compaiono in una copia della Sindone dipinta in tale data e conservata a Lierre.
L'immagine
L'immagine frontale presente sulla Sindone nel negativo fotografico
Il lenzuolo riporta due immagini molto tenui che ritraggono un corpo umano nudo, a grandezza naturale, una di fronte (immagine frontale) e l'altra di schiena (immagine dorsale); sono allineate testa contro testa, separate da uno spazio che non reca tracce corporee. Sono di colore più scuro di quello del telo.
L'immagine appare essere la proiezione verticale della figura dell'Uomo della Sindone: le proporzioni del corpo sono infatti quelle che si osservano guardando una persona direttamente o in fotografia, mentre l'immagine ottenuta stendendo un lenzuolo a contatto col corpo dovrebbe apparire distorta, ad esempio il viso dovrebbe apparire molto più largo.
Il corpo raffigurato appare quello di un maschio adulto, con la barba e i capelli lunghi.
L'immagine è poco visibile a occhio nudo e può essere percepita solo a una certa distanza (uno-due metri, mentre avvicinandosi sembra scomparire). Come scoprì Secondo Pia nel 1898, l'immagine è "al negativo", cioè i chiaroscuri sono invertiti rispetto a quelli naturali: infatti essa appare come "positiva" sul negativo fotografico acquisito in luce visibile. Si noti però che l'immagine appare come "positiva" su un positivo fotografico acquisito nell'infrarosso (8-14 micrometri).
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Articoli sulla Sindone
http://www.famigliacristiana.it/articolo/sindone-tutto-quello-che-c-e-da-sapere.aspx
http://www.liberoquotidiano.it/news/scienze---tech/13246808/sacra-sindone-avvolse-uomo-torturato-dice-una-ricerca-scientifica.html
http://www.liberoquotidiano.it/news/scienze---tech/13246808/sacra-sindone-avvolse-uomo-torturato-dice-una-ricerca-scientifica.html
sindone_storia.pdf | |
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sindone_ecco_la_ricostruzione_in_3d_del_corpo_avvolto.pdf | |
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Il Volto Santo di Manoppello
Il Volto Santo é un velo tenue, i fili orizzontali del tessuto sono ondeggianti e di semplice struttura, l’ordito e la trama si intrecciano nella forma di una normale tessitura. Le misure del panno sono 17 x 24 cm. é l’immagine di un viso maschile con i capelli lunghi e la barba divisa a bande. Caso unico al mondo in cui l’immagine è visibile identicamente da ambedue le parti. Le tonalità del colore sono sul marrone, le labbra sono di colore leggermente rosse, sembrano annullare ogni aspetto materiale. Non sono riscontrabili residui o pigmenti di colore. Le due guance sono disuguali: l’una, più arrotondata dell’altra, si mostra considerevolmente rigonfia. Gli occhi guardano molto intensamente da una parte e verso l’alto. Perciò si vede il bianco del globo oculare sotto l’iride. Le pupille sono completamente aperte, ma in modo irregolare. Nel mezzo, sopra la fronte si trova un ciuffo di capelli, corti e mossi a mo’ di vortice.
Video con spiegazione del Volto Santo di Manopello
Il Sudario di Oviedo
Il Sudario di Oviedo, conosciuto anche come telo di Oviedo, è una reliquia della Chiesa cattolica, costituita da un telo di lino di dimensioni ridotte (circa 0,84 per 0,53 m) conservato nella Cámara Santa della cattedrale di San Salvador ad Oviedo, in Spagna. Le analisi col metodo del carbonio-14 hanno datato il telo al 700 d.C. circa.
Secondo la tradizione cristiana e il vangelo di san Giovanni questo telo sarebbe stato usato per avvolgere il capo di Gesù dopo la sua morte e sino all'arrivo al sepolcro, quando, come d'uso, era stato tolto prima d'avvolgere il cadavere nel lenzuolo; diversamente dalla più famosa sindone di Torino, esso non porta impressa alcuna immagine, ma solo macchie di sangue. Il sudario viene esposto alla venerazione dei fedeli tre volte l'anno: il Venerdì Santo, il 14 settembre (Festa del trionfo della croce) e il 21 settembre (san Matteo apostolo ed evangelista).
Secondo la tradizione, il sudario fu conservato a Gerusalemme fino al 614. In quell'anno la città fu invasa dai Sasanidi di Cosroe II Parviz, e il sudario insieme ad altre reliquie fu trasportato via in un'"Arca Santa" di legno: viaggiando attraverso il Nordafrica, giunse in Spagna, dove fu conservato a Toledo fino alla prima metà dell'VIII secolo, quando l'invasione musulmana costrinse a trasferirlo; infine raggiunse Oviedo tra l'812 e l'842.
L'"Arca Santa" venne aperta nel 1075 alla presenza del re Alfonso VI; è solo da questo momento in poi che il sudario compare negli inventari delle reliquie della cattedrale, da cui risulta la sua ininterrotta permanenza ad Oviedo fino ad oggi.
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Secondo la tradizione cristiana e il vangelo di san Giovanni questo telo sarebbe stato usato per avvolgere il capo di Gesù dopo la sua morte e sino all'arrivo al sepolcro, quando, come d'uso, era stato tolto prima d'avvolgere il cadavere nel lenzuolo; diversamente dalla più famosa sindone di Torino, esso non porta impressa alcuna immagine, ma solo macchie di sangue. Il sudario viene esposto alla venerazione dei fedeli tre volte l'anno: il Venerdì Santo, il 14 settembre (Festa del trionfo della croce) e il 21 settembre (san Matteo apostolo ed evangelista).
Secondo la tradizione, il sudario fu conservato a Gerusalemme fino al 614. In quell'anno la città fu invasa dai Sasanidi di Cosroe II Parviz, e il sudario insieme ad altre reliquie fu trasportato via in un'"Arca Santa" di legno: viaggiando attraverso il Nordafrica, giunse in Spagna, dove fu conservato a Toledo fino alla prima metà dell'VIII secolo, quando l'invasione musulmana costrinse a trasferirlo; infine raggiunse Oviedo tra l'812 e l'842.
L'"Arca Santa" venne aperta nel 1075 alla presenza del re Alfonso VI; è solo da questo momento in poi che il sudario compare negli inventari delle reliquie della cattedrale, da cui risulta la sua ininterrotta permanenza ad Oviedo fino ad oggi.
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Descrizione del Sudario di Oviedo
Sovrapposizione del volto della Sindone con il telo di Manopello e il sudario di Oviedo
Sovrapposizione del volto della Sindone con il telo di Manopello e il sudario di Oviedo
Ricostruzione storica delle peripezie della Sindone
Questa ricostruzione storica è stata estrapolata da un articolo molto più ampio di Mikos Tarsis (alias di Enrico Galavotti) in cui si fa un'analisi laica dei testi evangelici dedicati alla tomba vuota e alla sindone. Per chi volesse leggere l'analisi intera essa è pubblicata su Academia.edu
Storia della Sindone
Il più antico riferimento alla Sindone è contenuto sia nei quattro vangeli canonici (Mc 15,46; Mt 27,59; Lc 23,53; Gv 20,7) che in tre apocrifi: il Vangelo degli Ebrei (II sec.), gli Atti di Pilato e il Vangelo di Nicodemo. Si pensa che la riluttanza a lasciare documenti scritti su tale reperto fosse dovuta ai timori che le persecuzioni romane potessero distruggerlo. In ogni caso la Sindone scomparve da Gerusalemme al tempo della guerra giudaica o forse anche prima, viste le persecuzioni giudaiche contro i cristiani (tant'è che le leggende parlano del discepolo Taddeo, che l'avrebbe portata a Edessa verso la metà del I sec.). Probabilmente fu trasferita nei luoghi citati nei vangeli in cui Gesù e i suoi discepoli si rifugiavano per sottrarsi alla cattura da parte dei sacerdoti. Poi, passando per la Decapoli, venne portata a Edessa (attuale Urfa), ove regnava il re Abgar nell'antico regno Osroene della Mesopotamia. Il regno fu conquistato dai Romani intorno al 116 d.C., durante le campagne partiche di Traiano, e perse definitivamente l'indipendenza un secolo dopo, quando regnava Abgar IX (212-214). A Edessa si parlava e si scriveva in aramaico, in una forma molto vicina a quella di Gerusalemme. Quindi era un polo di resistenza al dilagante ellenismo. Abgar VIII (177-212) fu il primo sovrano in assoluto a convertirsi al cristianesimo, anticipando di un secolo Costantino. Quando la comunità cristiana subì persecuzioni al tempo degli imperatori Decio e Diocleziano, la Sindone fu tenuta nascosta in una nicchia delle mura urbane. Un'icona del V secolo ci ha tramandato la presentazione del telo sindonico alla corte del re Abgar V, che governò dal 13 al 50. Nel 325 un vecchio monaco e storico, di nome Niaforis, disse che il telo era stato conservato da Pietro e poi tenuto nascosto, ma già il Vangelo apocrifo degli Ebrei aveva detto la stessa cosa. Peraltro sarebbe stato più naturale ch'esso venisse consegnato alla madre di Gesù, verso cui Giovanni aveva promesso assistenza ai piedi della croce. Nel 340 circa s. Cirillo, a Gerusalemme, fa un riferimento alla Sindone.
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Nel 388 una badessa spagnola di nome Egeria, facendo un pellegrinaggio in Palestina, decise di recarsi anche a Edessa: qui - stando al suo diario - le sarebbe stata mostrata la porta delle mura attraverso cui il telo era entrato. Nel 412 il prefetto Leonzio di Thessaloniki dedica alla Sindone una basilica. Il telo ricompare a Edessa nel 544, all'arrivo dei Persiani di re Cosroe, in guerra con l'impero bizantino (540-561). Giustiniano li sconfisse, firmò una tregua ed edificò una chiesa somigliante all'Haghia Sophia di Bisanzio, proprio per conservare il prezioso reperto, permettendo la visione del volto. Nel 570 un anonimo piacentino dice che a Gerusalemme si trova il sudario ch'era stato posto sul capo di Gesù. Ma doveva trattarsi di una copia. Infatti nel 670 circa Arculfo, vescovo delle Gallie, dice la stessa cosa, cioè vede a Gerusalemme, occupata dai musulmani nel 637, una copia pittorica dell'impronta sindonica, lunga otto piedi, cioè circa 232 cm. Nel 646 il vescovo di Saragozza dichiara che non si può chiamare superstizioso chi crede nell'autenticità del sudario. Un riferimento alla Sindone è presente nel Messale Mozarabico e in vari libri liturgici della Chiesa bizantina. Ma torniamo a Edessa. Qui l'immagine del volto di Gesù viene chiamata anche Mandylion: termine di origine araba che significa "panno". Altro non sarebbe che la Sindone piegata a metà e poi ancora ripiegata quattro volte (tetradyplon, come detto negli Atti di Taddeo), finché al centro del rettangolo si vede solo il volto di Gesù. Sulla base del Mandylion si afferma, a partire dal VI sec., una caratteristica tipologia del volto di Cristo nell'iconografia bizantina, rimasta inalterata sino ad oggi. Perde l'aspetto ellenistico, da giovane dio pagano imberbe, e assume quello di un "pantocratore" dai capelli lunghi e bipartiti, che coprono quasi completamente le orecchie, mentre il collo, pur coperto dalla barba, lo si vuole rigonfio in segno di saggezza, e le spalle, nelle raffigurazioni in cui la testa viene come separata dal corpo, quasi non si vedono. Il naso è lungo e diritto e sulla fronte si disegna un ricciolo di capelli, senza poter capire ch'erano rivoli di sangue causati dal casco di spine.
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Uno dei primi artisti, purtroppo anonimo, che riproduce la 34 Sindone, appena ritrovata a Edessa, lo fa su un vaso d'argento, oggi conservato al Louvre, in cui tenta per la prima volta una ricostruzione di tipo tridimensionale. Nel II concilio di Nicea (787) si sancisce la legittimità della venerazione del Mandylion. Edessa viene occupata dagli arabi nel 638-9: non fu saccheggiata e il telo rimase nella chiesa fatta costruire da Giustiniano, senza poter essere esposta in pubblico. Quello fu il momento in cui nella lingua araba, che aveva sostituito l'aramaico, il telo fu chiamato Mandil, poi grecizzato con la parola Mandylion. Nel 944 il generale bizantino Giovanni Curcas pone l'assedio alla città, che abbandonò solo dopo che l'emiro arabo ebbe consegnato il Mandylion, come avevano richiesto i due imperatori Romano I Lecapeno (920-44) e Costantino VII Porfirogenito (912-59), i quali in cambio offrirono non solo la pace, ma anche 12.000 denari d'argento e la liberazione di 300 giovani nobili prigionieri. Essa così giunse a Costantinopoli, naturalmente contro la volontà dei cristiani di Edessa. Lo stesso imperatore descrive il volto sindonico come dovuto a "una secrezione liquida senza materia colorante né arte pittorica", un'immagine evanescente, di lettura difficile, formata di sudore e di sangue. A Costantinopoli il telo viene messo nel santuario di Blacherne (poi in quello del Faro, all'interno del Bucoleon) e il 16 agosto se ne istituì la festa, tuttora presente nel calendario ortodosso. Nella Biblioteca Nazionale di Madrid si trova un codice greco di Giovanni Skylitzes, riferito alla storia degli imperatori cristiani d'oriente dal 812 in avanti. Ebbene, una miniatura illustra proprio il momento in cui l'arcivescovo Gregorio il Referendario (personaggio di spicco della corte di Romano I Lecapeno) consegna la Sindone a Costantino Porfirogenito. Non usando la prospettiva, l'artista fa emergere letteralmente il volto di Cristo dal lenzuolo, come se fosse una testa staccata dal corpo, mentre il basileus vi si accosta per baciarlo. Tutta la vicenda di Edessa e di Costantinopoli è narrata nel Sinassario scritto da Simeone Metafraste (logoteta sotto gli imperatori Niceforo Foca, Giovanni Tzimisce e Basilio II), che in Europa occidentale verrà conosciuto solo nel 1978. Fu lui ad attribuire alla Sindone la parola "Tetradyplon", cioè "piegato in quattro su di sé", in modo da rendere visibile solo il volto.
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Intorno al 950 un medico di nome Smera, che aveva esercitato a Edessa e poi a Roma, tradusse in latino un testo siriaco in cui si parlava dalla Sindone. Nel 1080 circa Alessio I Comneno chiede aiuto all'imperatore Enrico IV e a Roberto di Fiandra per difendere la Sindone a Costantinopoli, minacciata dai turchi. Nel 1147 Luigi VII re di Francia venera la Sindone a Costantinopoli, alla presenza del basileus Manuele Comneno. Ma la vedono anche alcuni intellettuali di spicco, come il lombardo Orderico Vitale (1075-1142), autore di una imponente Historia ecclesiastica, e dal giurista, politico e scrittore inglese Gervasio di Tilbury (1155- 1234). Il telo fu visto anche dall'abate benedettino Nicholas Saemundarson, giunto appositamente dall'Islanda nel 1151. E, prima ancora, nel 1058 da un arabo cristiano, lo studioso Abu Nasr Yahya. Il "Codice Pray", una pergamena della Biblioteca Nazionale di Budapest, databile tra il 1150 e il 1195, presenta una miniatura che riproduce la Sindone. Motivo di ciò sta nel fatto che una delegazione ungherese si era recata a Costantinopoli per combinare un matrimonio politico tra i figli dei rispettivi sovrani, e nell'occasione avevano potuto ammirare il lenzuolo conservato nella cappella imperiale. Un miniaturista riprodusse la sagoma, restando soprattutto colpito dal gruppo di quattro strani fori carbonizzati a forma di elle maiuscola che si ripetono per quattro volte sul telo. Nel 1171 Manuele I Comneno mostra al re di Gerusalemme il sudario di Cristo. Gli imperatori erano così entusiasti di questo reperto che fecero vari piccoli tagli nella zona dei piedi dell'impronta anteriore, al fine di poterli conservare fra gli arredi personali, probabilmente da utilizzarsi come forma di protezione superstiziosa durante le battaglie. Uno di questi frammenti si conservò nella Sainte Chapelle di Parigi per cinque secoli, poi andò perduto durante la rivoluzione.
Della Costantinopoli cristiana rimase assai poco quando nel 1204 fu occupata dai crociati latini. L'immensa biblioteca imperiale andò distrutta. I crociati cercavano oggetti preziosi. I prelati latini erano a caccia di reliquie. Robert de Clary, cronista di quella quarta crociata, scrive che tutti i venerdì la Sindone era esposta per intero a Costantinopoli, ma che poi fu trafugata dai crociati.
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In una lettera del 1205, Teodoro Angelo Comneno, fratello di Michele Angelo della famiglia del deposto imperatore di Costantinopoli, lamenta la scomparsa della Sindone e sostiene ch'essa si trova ad Atene. Essa compare l'ultima volta negli elenchi ufficiali di Costantinopoli nel 1207. Nel 1208 uno dei capi della crociata, Othon de la Roche, cui toccò la signoria di Atene (di cui fu duca), aveva ricevuto la Sindone dal marchese Bonifacio di Monferrato (che, dopo la crociata, divenne re di Tessalonica e di Creta). Le truppe di Othon de la Roche erano i Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni e i Cavalieri del Tempio o Templari. Solo quando si accorse che i bizantini, con l'aiuto dei Bulgari e dei Tartari Comani, minacciavano di riprendersi i territori perduti, Othon aveva deciso, nel 1208, di affidare ai Templari la Sindone, che la portarono in Francia, a Besançon, ove resterà sino al 1349. Di Othon si perdono le tracce dopo il 1225. Nel 1241 Baldovino II de Courtenay, quinto imperatore latino di Costantinopoli, invia al re francese Luigi IX la tavola che aveva contenuto la Sindone, preziosamente incorniciata, su cui era stato dipinto il volto sindonico. Nel 1307 i Templari vengono fatti arrestare dal re Filippo IV il Bello, per privarli dei loro immensi beni. Nel 1312 Filippo ottiene da papa Clemente V la condanna dell'Ordine per eresia: una delle accuse è quella di praticare il culto segreto di un "uomo barbuto", un volto ritenuto "santo" (privo però di aureola!), che nascondevano appunto a Besançon. Ma loro non ammisero mai niente, salvo Raoul de Gizy, sotto tortura. La cattedrale della città, nel 1349, andò a fuoco per ragioni dolose: coloro che rubarono la reliquia[12] vollero far credere che fosse andata distrutta tra le fiamme. Senonché fra il 1353 e il 1356 la Sindone appare a Lirey (diocesi di Troyes), in possesso di Goffredo di Charny, cavaliere crociato, che fece costruire una chiesa per ospitare il lenzuolo (sua moglie era una discendente di Othon de la Roche).
[12] Sulla parola "reliquia" si potrebbero dire tante cose, anche positive, poiché a tutti fa piacere avere un ricordo particolare di qualcuno, da considerare molto prezioso. Di sicuro però non ci si può accostare a una reliquia con l'atteggiamento di chi pensa di poter ottenere dei benefici particolari toccandola.
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Poiché vi era la guerra dei Trent'anni, il nobile aveva bisogno di molto denaro e pensò di organizzare nel 1355 un'esposizione del reperto nella Collegiata di Lirey, sperando di avere un afflusso significativo di pellegrini. E così in effetti fu. Il vescovo di Troyes, Henri de Poitiers, geloso di questa iniziativa religiosa promossa da un laico, dichiarò subito che il reperto era un falso. Goffredo morì nella battaglia di Poitiers (1356) e non rivelò mai come fosse entrato in possesso del lenzuolo (tra gli ascendenti della famiglia Charny vi erano tuttavia cavalieri della quarta crociata e vari Templari). Sua moglie pensò di trasferirsi, portando con sé la Sindone, in una rocca della sua famiglia, a Montfort-en-Auxois. Tuttavia il figlio di Goffredo, nel 1389, pensò di far tornare il telo a Lirey, nella chiesa che suo padre aveva fatto appositamente costruire, per allestire una nuova ostensione, senza chiedere il permesso del vescovo di Troyes, Pierre d'Arcis, che se ne risentì a tal punto da convocare un sinodo per vietare al clero di far parola della Sindone. Per tutta risposta Goffredo II e buona parte del clero si appellarono all'antipapa di Avignone Clemente VII, che, nel 1390, permise sì le ostensioni (Clemente VII era imparentato con gli Charny), ma a condizione di dichiarare esplicitamente che quella non era la vera Sindone, anche perché gli imperatori bizantini ancora ne reclamavano la restituzione. Nel 1418 i canonici di Lirey, temendo che venisse coinvolta nella guerra fra Borgogna e Francia, affidarono la reliquia al conte Umberto de la Roche, che morì nel 1448, lasciandola alla moglie Margherita di Charny, nipote di Goffredo I e gran dama della Franca Contea. Questa, invece di restituire il telo ai canonici, lo consegnò (in cambio di benefici) nel 1453 alla duchessa Anna di Lusignano e di Cipro, moglie del duca Ludovico di Savoia, che viveva a Chambéry, capitale di Casa Savoia, grande collezionista, insieme al marito, di reliquie religiose. Sperava in cambio di ottenere il riscatto del presunto erede del defunto conte di Charny, che era prigioniero dei Turchi. Margherita fu colpita da scomunica e morì nel 1459. I duchi di Savoia nel 1502 fecero costruire una cappella nel castello di Chambéry in cui custodire il lenzuolo, senza prevedere un culto pubblico. Ma nel 1506 papa Giulio II approva la messa con "colletta" e Ufficio proprio della Sindone. La festa liturgica verrà ri38 confermata da papa Clemente X nel 1673, mai abrogata.
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Nel 1532 la cappella di Chambéry prende fuoco: l'urna d'argento che contiene la Sindone si surriscalda e una goccia del metallo fuso brucia un angolo del telo ripiegato su se stesso. Le suore clarisse di Chambéry, due anni dopo, cuciranno i 29 rattoppi oggi visibili. Non era la prima volta che la Sindone aveva rischiato d'essere incendiata. Durante le guerre (1536-61) tra Francesco I e Carlo V la Sindone viene trasferita a Nizza, poi a Vercelli e di nuovo a Chambéry. I Savoia erano schierati a fianco di Carlo V. Nel 1578 Emanuele Filiberto trasferisce la Sindone a Torino, per abbreviare il viaggio all'anziano arcivescovo di Milano, card. Carlo Borromeo, che vuole venerarla a Chambéry, sperando che il flagello della peste abbia termine. Ogni 30 anni si succedono ostensioni per particolari celebrazioni di Casa Savoia, o per giubilei. Nel 1694 il lenzuolo viene sistemato definitivamente nella cappella del Guarini a Torino. Vengono rinforzati i rattoppi. Nel 1898 l'avvocato Secondo Pia esegue la prima fotografia. Nel 1931 e 1933 due ostensioni pubbliche della Sindone. Nel 1939 viene nascosta, a causa della guerra, a Montevergine (Avellino). Nel 1946 ritorna a Torino. Nel 1950 viene trovato casualmente in un antico edificio inglese appartenuto ai Templari (Templecombe, nel Somerset) il volto dipinto del Cristo sindonico. Nel 1969 si istituisce una commissione scientifica per studiarla. Nel 1973 vi è la prima ostensione televisiva in diretta. Nel 1978 ostensione pubblica e primo Congresso Internazionale di studi a Torino. Nel 1983, per volontà testamentaria di Umberto II di Savoia, la Sindone passa alla Santa Sede, che ne nomina "custode" pro tempore l'arcivescovo di Torino. Nel 1988 viene prelevato un frammento del telo per compiere un'indagine radiocarbonica: il test del C14 colloca la nascita della Sindone tra il 1260 e il 1390 d.C. Molti scienziati contestano queste conclusioni. Nel 1997 scoppia un incendio nella Cappella del Guarini: la Sindone viene salvata dai vigili del fuoco.
Nel 1998 nuova ostensione pubblica. Lo sarà di nuovo nel 2000, in occasione del Giubileo. Nel 2002 è stato rimosso il restauro operato dalle suore Clarisse di Chambéry nel 1534; tutti i rappezzi sono stati asportati e sono stati raschiati i bordi carbonizzati dei fori. Sul retro della Sindone è stata cucita una nuova tela che risale a una cinquantina d'anni fa. Sono state anche eseguite numerose foto digitali dettagliate, indispensabili per poter effettuare studi più approfonditi.
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Motivi di autenticità della Sindone
Della Sindone conservata a Torino (il lenzuolo di lino è lungo 4,36 m. e largo 1,10 m.) parlano non solo i quattro vangeli canonici, ma anche tre apocrifi: Vangelo degli Ebrei, Atti di Pilato e Vangelo di Nicodemo. È inoltre attestata dalla tradizione storica: per i primi sette secoli si trova a Gerusalemme, a Edessa fino al 944, poi a Costantinopoli sino alla quarta crociata (1204), poi in varie località francesi e, infine, dal 1578 a Torino. Quanto è accaduto all'uomo della Sindone (sevizie, morte, sepoltura) corrisponde a quanto descritto nei vangeli: corona di spine (Mc 15,17; Gv 19,2)([13]; flagellazione (Mc 15,15; Gv 19,1); torture (Mc 15,19s.; Gv 19,3) e trave sulla spalla (Gv 19,17), cioè il patibolo a cui venivano legate le braccia durante il tragitto verso il palo dell'esecuzione. "Allora Pilato prese Gesù e lo fece flagellare, perché fosse crocifisso" (Gv 19,1; Mc 15,15). I Romani, a seconda della gravità del reato e del tipo di colpevole, usavano fruste molto diverse tra loro. Il flagrum taxillatum o plumbum, per i condannati a morte, era costituito da almeno tre cordicelle che terminavano con delle punte di piombo o con degli ossicini, uniti tra loro da una sbarretta diritta di pochi centimetri. Nella Sindone le frustate furono date da mani esperte su tutto il corpo nudo, legato a una colonna, ad eccezione della regione cardiaca, poiché il condannato doveva morire sulla croce, cioè con un'esecuzione capitale voluta in qualche modo col consenso popolare.
[13] In realtà nella Sindone appare un "casco di spine", in contrasto con l'iconografia tradizionale. Da notare che questa trovata ingiuriosa da parte dei soldati, che si sono sentiti di utilizzarla proprio perché avevano capito che, una volta inferta quella pesantissima fustigazione, il destino di Gesù, in un modo o nell'altro, era segnato, non trova riscontri nella storia romana. Fu così inumana che vien da pensare che sul Getsemani non avvenne solo una semplice trattativa tra l'autoconsegna di un leader politico e, in cambio, la fuga dei propri seguaci, ma anche uno scontro armato vero e proprio, in cui alcuni soldati romani ci rimisero la vita. Uno scontro che gli evangelisti avrebbero voluto minimizzare nel gesto della recisione dell'orecchio del servo del sommo sacerdote ad opera di Pietro. A meno che la spiegazione di un trattamento così vergognoso non vada cercata nella convinzione che i Romani avevano di una imminente insurrezione durante la Pasqua, che assai difficilmente avrebbero potuto fronteggiare.
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I flagellatori dovettero essere due, poiché le tracce dei colpi sono simmetriche, disposte oblique verso l'alto sulla parte alta della schiena, orizzontali alle reni, ed oblique verso il basso, nelle gambe. Di regola le frustate erano assai meno di quelle che qui hanno prodotto circa 370 lesioni affiancate a due a due (più quelle che non si vedono), a meno che non venisse usata la stessa fustigazione come esecuzione capitale, ma in tal caso si sarebbe usata una frusta diversa (la securis).[14] Normalmente, infatti, i condannati a morte di croce venivano flagellati mentre si recavano nudi, con le braccia legate alla trave portata dietro le spalle, al luogo del supplizio.[15] Se Gesù fosse stato flagellato, come i suoi due compagni, durante il viaggio al Calvario, i colpi sarebbero distribuiti disordinatamente sulle varie parti del corpo. La Sindone invece ci rivela metodicità e quasi regolarità nella distribuzione e direzione dei colpi a raggiera. Peraltro Gesù non arrivò nudo alla croce, in quanto i militari si giocarono a dadi la veste senza cuciture, anche se probabilmente morì nudo, in quanto nella tomba, se avesse avuto un perizoma[16], non gli avrebbero incrociato le mani sul pube, ma le avrebbero lasciate affiancate al corpo. Essendo già irrigidite, dovettero forzarle in quella posizione. L'impronta del secondo legaccio è ben visibile all'altezza del petto. Peraltro la lunghezza notevole delle braccia e delle mani lascia pensare ch'esse si fossero come slogate sulla croce (nell'articolazione scapolo-omerale) e che poterono restare incrociate sul corpo sindonico solo in virtù di un legaccio posto attorno al lenzuolo, alla loro altezza, per tenerle unite, anzi incrociate (un altro legaccio fu messo all'altezza delle caviglie, per unire le due estremità del lenzuolo).
[14] Tale punizione fu in uso almeno fino all'imperatore Onorio, che nel 390 la ordinò contro l'eretico monaco Gioviniano.
[15] L'impronta obliqua lasciata dalla trave orizzontale parte dall'alto della spalla destra e arriva fin sotto la scapola sinistra. Ciò perché tale legno non era soltanto legato alle braccia del condannato ma anche al suo piede sinistro: il camminare quindi imprimeva alla trave un movimento verso il basso per cui essa gravava maggiormente sulla spalla sinistra e infatti questa spalla ci appare nella Sindone più tormentata che non la destra.
[16] Non pochi sindonologi han rilevato che un perizoma o anche solo una mentoniera avrebbero impedito l'impressione di tutta la superficie corporea sul telo. Di fatto solo la parte inferiore degli arti inferiori, fino alle ginocchia, risulta meno marcata, e ciò va attribuito al legaccio posto all'altezza delle caviglie per tenere il lenzuolo ripiegato sotto i piedi.
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La flagellazione fu usata da Pilato come una forma di screditamento pubblico nei confronti di un messia politico la cui popolarità era troppo grande per poter procedere a una condanna veloce, a un'esecuzione sommaria. Il vangelo di Marco invece la presenta come un rito preliminare alla crocifissione. Sembra non sapere ch'essa fu alquanto devastante, al punto che, se anche gli fosse stata risparmiata la croce, ben difficilmente il Cristo sarebbe riuscito a sopravvivere.[17] Pilato aveva bisogno d'indurre la folla di Gerusalemme a credere che, di fronte a quella pesante flagellazione, la crocifissione poteva anche essere considerata come un esito inevitabile del processo. Se questa folla avesse comunque preferito la liberazione del condannato, questi sarebbe stato consegnato soltanto dopo aver subìto una flagellazione così cruenta da farlo diventare assolutamente innocuo per il potere di Roma. Si arriva a una conclusione del genere solo leggendo, tra le righe, il quarto vangelo. Dopo la flagellazione i soldati condussero Gesù nell'atrio del Pretorio e vi convocarono tutta la coorte. Lo avvolsero in una veste di porpora e, intrecciata una corona di spine, gliela misero sul capo e cominciarono a salutarlo: "Salve, o re dei Giudei". Sul volto del Cristo si trovano molte escoriazioni, specie sulla metà destra, che è deformata. Le due arcate sopracciliari presentano delle piaghe contuse, prodotte da pugni o bastonate. Dicono infatti i vangeli che gli picchiavano la testa con una canna, gli sputavano addosso e, piegando il ginocchio, gli si prostravano davanti. E gli davano schiaffi. (Mc 15,16 ss.; Gv 19,2 s.). Il dileggio o lo scherno era un elemento caratterizzante del supplizio della croce: non dimentichiamo che questa esecuzione capitale verrà eliminata solo al tempo di Costantino (che rinunciò al proprio culto a vantaggio di quello cristico) e di Teodosio (che fece del culto cristico qualcosa di così esclusivo da vietare i culti pagani), a testimonianza che il cristianesimo, eticamente, aveva vinto.
[17] Si può qui ricordare che non solo spettava ai procuratori o prefetti romani il potere di vita e di morte su chiunque fosse sotto la loro giurisdizione, ma dipendeva da loro, non essendoci una regola codificata, la durata e l'intensità della fustigazione dei condannati, a differenza della legislazione giudaica, che vietava che i colpi superassero il numero di 40 e che fossero particolarmente debilitanti.
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La lesione più evidente è prodotta da una larga escoriazione sullo zigomo destro, che arriva sino alla palpebra, visibilmente più gonfia di quella a sinistra. Il naso è deformato da una frattura della cartilagine dorsale, prodotta probabilmente da una bastonata o da una caduta. Si vedono scendere due rivoli di sangue. Altre escoriazioni si vedono sulla guancia sinistra, sulla punta del naso e sul labbro inferiore. La corona di spine, fissata attorno al capo mediante un laccio, era una specie di calotta formata di rami spinosi intrecciati, molto pungenti: le spine dovevano essere almeno 60-70, poiché le colature di sangue sono una trentina (solo sulla fronte e le tempie si possono intravedere almeno 13 diverse perforazioni della pelle). Il dolore provocato dalle spine dovette essere molto intenso, se si pensa che il cuoio capelluto è uno dei tessuti più ricchi di "punti dolorifici" del corpo umano. La legislazione romana vietava, in fase immediatamente precedente all'esecuzione, di torturare i condannati a morte. Peraltro qui non era ancora stato emesso il verdetto definitivo, per cui senza il consenso di Pilato sarebbe stato impossibile agire in tale maniera, tanto meno nei locali del Pretorio. Non a caso un analogo crudele episodio non è mai stato ricordato in nessun processo storico di condanna alla morte di croce tramandatoci dall'antichità. Le torture poterono essere inflitte al Cristo soltanto dopo la flagellazione, ed esse furono non solo feroci (con la corona di spine e i colpi inferti) ma anche denigratorie del fatto che il Cristo era intenzionato a compiere un'insurrezione armata la notte precedente il processo: cosa che se fosse andata a buon fine, non avrebbe dato alcuna possibilità di manovra alla guarnigione romana stanziata nella città santa. "Allora Pilato lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso" (Gv 19,16; Mc 15,15).
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Avendo già subìto una pesante flagellazione, Gesù cadde più volte lungo il percorso e non riuscì a portare il patibulum sino alla cima del Golghota[18]; per questo i soldati obbligarono Simone di Cirene ad aiutarlo (Mc 15,21).
La Sindone attesta le cadute mostrando sangue, terriccio e contusioni nelle ginocchia, nel tallone e al naso (il che fa pensare che fosse stato legato alla trave e che non potesse difendersi in alcun modo mentre cadeva): in particolare vi è una zona escoriata e contusa tra lo zigomo destro e il naso, provocata probabilmente da una caduta, la cui violenza ha rotto la cartilagine del naso. Si sono notate anche delle escoriazioni sopra le scapole, dovute al peso della trave, ch'era circa di 40-45 chili (che comunque un uomo di 80 chili, alto 180 centimetri circa, come appare quello sindonico, in condizioni normali non avrebbe avuto difficoltà a trasportare). Ma le ferite sulle scapole appaiono più appiattite o slargate, non lacerate dallo sfregamento col legno: il che ha fatto pensare ch'esse fossero protette dalla tunica di lana, su cui i soldati, infatti, ai piedi della croce, gettarono la sorte coi dadi al momento di dividersela. Giunto sul Golghota (a piedi nudi, come attesta la polvere trovata sui talloni), si pensò alla soluzione dei chiodi anche per i polsi, che generalmente venivano legati con corde (naturalmente coi chiodi la morte era affrettata e non da escludere che lo si sia fatto apposta, per maggiore sicurezza).[19] I chiodi (da carpentiere) di 12 centimetri, con quattro facce a spigolo, passavano tra l'ulna e il radio con relativa facilità, lesionando il nervo mediano ma senza rompere alcun osso: la conseguenza era la contrazione dei pollici verso l'interno della mano; infatti nella Sindone non si vedono.
[18] I condannati a morte, una volta legati alla trave orizzontale o patibulum, dovevano portarla attraverso la città, in modo che tutti potessero vederli, fino al palo verticale già pronto sul luogo dell'esecuzione, al quale sarebbero stati facilmente infissi. Difficile dire se il fatto che al Cristo misero i chiodi, invece che delle corde, sia attribuibile alla volontà di Pilato di vederlo morto il più presto possibile o alla casualità del trasporto della trave da parte di Simone di Cirene, che obbligò i soldati a sciogliere Gesù.
[19] Da notare che in tutte le rappresentazioni antiche della crocifissione i chiodi sono piantati nelle mani, anche se in questo modo il corpo non poteva rimanere appeso in croce. L'ipotetico falsario medievale non poteva saperlo o comunque non avrebbe avuto motivi per contraddire le rappresentazioni della tradizione, rischiando così di dare adito a sospetti. Meno che mai poteva sapere che l'estensione accentuata delle dita delle mani era una conseguenza della ricerca di equilibro di Gesù sulla croce.
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Gesù fu inchiodato ai polsi, mentre era sdraiato per terra e poi fu issato sullo stipes. [20] Dopodiché, appeso solo per le braccia, gli fissarono i piedi, tra loro sovrapposti (il sinistro è sul destro), con un solo chiodo, direttamente contro il palo verticale, senza alcun appoggio, semplicemente obbligandolo a flettere un po' le ginocchia. I Romani non usavano, in genere, dei suppedanei o delle predelle o dei sedili da mettere sotto i glutei o sotto i piedi, che aiutassero il condannato a resistere oltre il dovuto. La crocifissione era considerato il più crudele dei supplizi, ma non permetteva un tempo di sopravvivenza molto lungo. Di regola, i crocifissi morivano asfissiati (al massimo, se legati con corde nelle braccia, potevano durare un paio di giorni)([21]: un qualunque appoggio fissato allo stipes, su cui potersi reggere, non avrebbe fatto che prolungare l'agonia. Le braccia inevitabilmente si slogavano, e infatti nella Sindone appaiono più lunghe del normale. In Gesù doveva aver contribuito al decesso anche l'enorme spargimento di sangue già al momento della flagellazione, quindi non è escluso che la breve permanenza sulla croce sia stata causata anche da un infarto miocardico. Trafittura al costato. Il colpo di lancia al costato[22], in direzione del cuore, fu dato poche ore dopo la morte, per constatare l'avvenuto decesso e permettere quindi la sepoltura del cadavere, che generalmente avveniva in una fossa comune.
([20] Di regola gli stipes erano di due tipi: humilis, cioè bassi, per gli schiavi, che potevano anche essere sbranati da animali randagi; e sublimis, cioè alti, per personaggi di un certo rango, in modo tale che la croce si vedesse anche da lontano. Considerando che un militare diede da bere a Gesù con una spugna legata a una canna di issopo, si capisce facilmente a quale stipes fu inchiodato.
[21] Se si lega un condannato per i polsi e lo si lascia, sospeso, senza che tocchi per terra, nell'arco di un'ora al massimo muore: il cuore non regge per insufficienza respiratoria. Non a caso la Sindone mostra dei rivoli di sangue che nei piedi, nelle mani e nelle braccia seguono varie direzioni: segno che il Cristo, spostando il peso dai piedi ai polsi e viceversa (accasciamento e raddrizzamento), cercava di muoversi per poter respirare e dire le ultime parole.
[22] A proposito di questo colpo di lancia, è stato notato che la spalla destra è più abbassata della sinistra probabilmente perché quel colpo, avendo aperto la cavità pleurica, ha fatto afflosciare il polmone destro e conseguentemente abbassare la spalla destra. D'altra parte anche la gamba sinistra appare più corta dell'altra e il piede lievemente storto, tanto che nell'antichità si pensava fosse zoppo, e non a caso gli iconografi lo rappresentavano su un suppedaneo inclinato (a questo piedistallo, quando lo si paragonerà a una bilancia, la Chiesa bizantina darà un significato simbolico di giustizia). In realtà ciò è una conseguenza del metodo d'inchiodatura dei piedi (un solo chiodo passava per le ossa del metatarso dei piedi sovrapposti) e della rigidità cadaverica repentina, due aspetti scoperti solo in tempi recenti.
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Il sangue della ferita del torace, tra la quinta e la sesta costola, è sgorgato da una persona già cadavere: la parte corpuscolare o cellulare è separata da quella seriosa (Gv 19,34). Il liquido chiaro serioso, accumulandosi nello spazio pleurico, avrebbe dovuto essere di più del sangue fuoriuscito: non a caso nelle prime traduzioni del IV vangelo la sequenza era "acqua e sangue" e non il contrario. Anche l'analisi dell'impronta del cadavere sul lenzuolo ha dimostrato la presenza del rigor mortis già sulla croce (p.es. il capo è flesso in avanti, come doveva essere sulla croce al momento del decesso, inoltre gli arti inferiori sono disposti in maniera asimmetrica, essendo stato un piede inchiodato sull'altro). Gli studi scientifici della Sindone sono praticamente iniziati quando venne fotografata per la prima volta nel 1898 dall'avvocato Secondo Pia, il quale scoprì che la figura umana impressa sul telo si vedeva meglio sul negativo della foto che non sul telo stesso. Due fenomeni quindi si notano facilmente: le parti che nella realtà sono chiare appaiono scure e viceversa; le parti che nella realtà sono a destra appaiono a sinistra e viceversa. Questo esclude che l'immagine possa essere un dipinto. Nessuno sarebbe stato in grado di produrre un'immagine in negativo prima ancora che fosse stata inventata la fotografia, cosa che avverrà nel 1850. Peraltro le immagini non hanno alcuna direzione, come appunto accade nei dipinti. Tuttavia molti accusarono Pia di aver truccato le foto o di aver usato delle lastre difettose. Non solo, ma cominciò a emergere la convinzione secondo cui quel reperto sarebbe stato prodotto artisticamente nel Medioevo, anche se ovviamente non si riusciva a spiegare il motivo per cui un artista avrebbe prodotto un'immagine che il pubblico non poteva vedere nella stessa maniera. Ci vorranno altri 30 anni prima di poter dimostrare che quel lenzuolo si comportava come un negativo fotografico. Infatti solo quando, nel 1931, un secondo fotografo, Giuseppe Enrie, fu autorizzato a compiere lo stesso lavoro del precedente, si dovette ammettere che quel reperto possedeva delle caratteristiche ben strane, ovvero che quella sagoma poteva effettivamente rappresentare un uomo crocifisso.
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Quanto nel cristianesimo orientale si era sempre creduto per tradizione, senza che mai nessuno avesse mai avuto il coraggio di metterne in dubbio l'autenticità; nell'Europa borghese e culturalmente positivistica, nonostante gli enormi progressi scientifici, pochissimi avrebbero messo la mano sul fuoco sul fatto che quel condannato a morte fosse davvero Gesù Cristo. Eppure saltava subito agli occhi una stranezza difficilmente spiegabile: mentre in una pittura i punti in rilievo di un qualunque soggetto sono convenzionalmente chiari e scuri o in ombra quelle rientranti, nella Sindone invece era il contrario. Già Paul Vignon nel 1902 se n'era accorto. Peraltro a una certa distanza l'immagine si vede bene, ma quanto più ci si avvicina, tanto più tendono a scomparire i confini tra la sagoma e lo spazio circostante. La Sindone non sembra essere un oggetto disposto a essere analizzato troppo scientificamente, per poter essere compreso nella propria "umanità". Tuttavia solo negli anni Settanta ci si convinse, tra i sindonologi, che in quel telo non esistevano sostanze coloranti o tecniche pittoriche (benché il chiaroscuro dell'immagine sia di colore giallastro con una certa uniformità cromatica). Non si vedeva alcuna direzionalità, alcuna programmata concatenazione di tratti. Peraltro l'impronta s'è formata solo là dove erano assenti le macchie di sangue, quindi è molto superficiale (da notare che solo nel 1981, con la ricerca di John Eller, si dirà che quelle macchie erano vero sangue umano). Addirittura nel 1977 i ricercatori americani E. J. Jumper e J. P. Jackson, utilizzando strumenti informatici, evidenziarono la presenza di un'informazione tridimensionale, che - come noto - è possibile solo quando l'illuminazione ricevuta dall'oggetto dipende dalla sua distanza. In genere le immagini chiare sacrificano la tridimensionalità e viceversa: qui invece si possono osservare entrambe le caratteristiche. Un anno dopo l'équipe del prof. italiano G. Tamburelli riuscì col computer a togliere al volto sindonico tutti i segni delle torture patite e a "ripulire" l'immagine dalle modifiche prodotte dalla struttura geometrica della tela e dalle vicissitudini da essa subite nel corso dei secoli, esaltando i dettagli con potenti ingrandimenti.
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Senza introdurre alcuna informazione aggiuntiva, l'équipe riuscì a ottenere l'unica immagine tridimensionale esistente del volto di Cristo antecedente alla crocifissione. L'immagine è tridimensionale sia per l'immagine frontale che per quella dorsale e si comporta come un negativo fotografico. Le informazioni tridimensionali possono essere utilizzate per ricostruire il corpo avvolto dal lenzuolo (è possibile una relazione inversamente proporzionale al quadrato della distanza). L'immagine corporea ha una risoluzione pari a 5 mm, che permette di distinguere particolari di dimensioni fino a circa mezzo centimetro. La cosa strana è che l'intensità dell'immagine varia inversamente con la distanza tra la tela e il corpo, cioè quanto più il corpo era vicino alla tela, tanto più l'immagine appare scura invece che chiara (senza che questo voglia dire che il telo abbia avuto una parte attiva nella realizzazione delle differenze di sfumatura). Non solo, ma la densità dell'immagine non dipende da variazioni nell'intensità della radiazione che l'ha prodotta. Quindi l'intensità è stata omogenea in tutto il corpo, senza alcuna difformità tra le parti. Tuttavia è proprio la tridimensionalità ad apparire sconcertante. In fotografia la rielaborazione a 3D è possibile soltanto quando il grado d'illuminazione ricevuto dall'oggetto dipende in qualche modo dalla sua distanza (come p.es. nelle fotografie stellari). In caso contrario occorrono almeno due fotografie dello stesso oggetto, separate da una certa distanza (come p.es. nella fotografia stereoscopica). Nella Sindone il ritratto in 3D presenta un corpo del tutto naturale, proporzionato, privo di distorsioni o sbavature che non siano scientificamente spiegabili.[23] La formazione della sagoma è avvenuta in modo assolutamente uniforme e a prescindere dalle caratteristiche della superficie corporea e anche da quello del telo, che avrebbe potuto essere non di lino ma di cotone o di lana. Anzi, se non ci fosse stato alcun telo ma una semplice parete bianca muraria o lignea o di gesso, l'effetto tridimensionale sarebbe stato probabilmente identico, a prescindere dalle sostanze profumate di cui la Sindone poteva essere intrisa. Grazie a questi e ad altri studi scientifici si è arrivati a risultati per molti versi sconcertanti.
[23] Le distorsioni che si notano in corrispondenza della schiena, delle mani, delle spalle e dei polpacci del cadavere sono causate dall'avvolgimento del lenzuolo e dai legacci che lo tenevano unito al corpo.
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Il corpo impresso nella Sindone è in stato di netto rigor mortis e in perfetto stato di composizione, per cui dovette rimanere avvolto nel lenzuolo per una decina d'ore circa. La Sindone non è un dipinto o un disegno, non presenta tratti di contorno o di riempimento, né bordi definiti. Non vi sono segni di pennellate o di colpi di spatola o di colori applicabili coi polpastrelli delle dita. Sopra di essa non è stato steso alcun fondo di preparazione. L'immagine non risulta dall'applicazione di una sostanza colorante di tipo minerale, vegetale o animale (pigmento, tinta, polvere, inchiostro...), e neppure è stata ottenuta da un cadavere per contatto o dallo stampo di un metallo caldo. Non vi sono tracce di cementazione o di pigmenti (oleosi o acquosi) negli interstizi fra le singole fibrille di lino componenti il filo della trama, tali da poter giustificare una formazione artificiale dell'immagine. D'altra parte solo le fibrille più esterne dei fili di lino sono interessate dall'immagine: lo attestano gli esami spettroscopici e termografici. L'impronta non penetra negli avvallamenti della tessitura e non può essere stata formata da essudazione corporea o da unguenti e aromi come mirra e aloe (queste ultime non sono state trovate nel corpo ma nel telo, in maniera irrilevante e disomogenea). Non ci sono sbavature, né diffusione per capillarità tra le fibrille del tessuto, come p.es. è avvenuto con l'acqua che gli è stata gettata sopra per spegnerla dal fuoco. L'immagine è termostabile alle alte temperature, ai gradienti termici e all'acqua e non può essere sbiancata o mutata da alcun agente chimico standard. È rimasta se stessa nonostante che per tre volte sia stata molto vicina a incendiarsi. L'immagine corporea è fluorescente ai raggi ultravioletti, ed è visibile nella sua completezza solo se un osservatore è a circa due metri di distanza. Nel 2011 l'ENEA di Frascati ha dimostrato che soltanto utilizzando la luce UV e VUV di un laser a eccimeri impulsato della durata di alcuni miliardesimi di secondo è possibile colorare il lino in modo similsindonico. Ci sono tracce di emoglobina. Il gruppo sanguigno è AB, tipico dei paesi mediorientali. Le macchie di sangue non sono in rilievo, ma come segnate a fuoco dentro il tessuto. Le impronte del sangue seguono perfettamente la legge dell'emodinamica e non presentano sbavature o segni di distacco, come sarebbe potuto avvenire se il corpo fosse stato trafugato togliendolo da essa.
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La salma, non avendo tracce di putrefazione, rimase avvolta nel lenzuolo, legato con bende, il tempo necessario per arrivare a notte fonda, quando nessuno avrebbe potuto assistere alla trasformazione. Il corpo si è volatilizzato quando la morte aveva prodotto una totale rigidità cadaverica, e le palpebre non si sono aperte: quindi non vi è stato un "risveglio" come lo intendiamo noi. Semplicemente tutto il corpo, in tutte le sue parti, così come si trovava nelle sue fattezze mortuali, ha emesso improvvisamente una sorta d'incandescenza o (ir)radiazione[24] che ha causato una completa e uniforme immagine a specchio, anche se il volto presenta una luminosità maggiore del 10% rispetto al resto (da notare che l'immagine dorsale, che, se si esclude il volto, è quella che si vede meglio, non è influenzata dal peso del corpo).[25] Nel 1954 il teologo di Chicago p. F. L. Filas, sulla base di alcune lastre fotografiche del volto sindonico, affermò d'individuare sulla palpebra destra impronte simili a una moneta dell'epoca di Cristo. Successivamente l'elaborazione tridimensionale dell'immagine negativa ingrandita della palpebra destra metteva in evidenza la presenza di quattro lettere: Y, C, A, I, nonché un'impronta centrale, un bastone, simile a un punto interrogativo. La scritta poteva essere, verosimilmente, questa: TIBERIOY CAICAPOS, corrispondente all'errore di conio (abbastanza frequente sulle monete dell'epoca) della scritta TIBEPIOY KAI APO (una "C" al posto della "K"). In questo caso si trattava del "dilepton lituus", moneta emessa da Pilato nell'anno XVI del regno di Tiberio, corrispondente al 29-30 d.C.
[24] Gli scienziati parlano di radiazione non-ionizzante di bassa energia, una sorta di scarica elettrica non superiore a qualche frazione di secondo, che ha coinvolto solo le fibrille più superficiali del tessuto, quelle più sporgenti e non quelle adiacenti. Tutta la massa materiale del corpo si trasformò, secondo la formula di Einstein E=Mc2 in una equivalente massa di energia. Da notare che tutti gli animali a sangue caldo emettono radiazioni infrarosse facilmente captabili anche di notte da alcuni serpenti. È comunque notorio il fatto che un corpo, esposto al Sole, può accumulare radiazioni che poi emette a distanza di qualche ora. Il fisiologo russo A. Gurwitsch individuò inoltre i cosiddetti "raggi mitogenetici" (simili alle radiazioni ultraviolette), relativamente alla divisione delle cellule animali e vegetali.
[25] Non pochi scienziati han fatto notare che l'immagine si è formata mentre il sepolcro era completamente buio, in quanto nella Sindone non appaiono tracce di fonti luminose esterne al corpo stesso.
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Si confermava così l'usanza ebraica di ricoprire con monete gli occhi del morto. Strano però che sia stato fatto con monete romane e non ebraiche: sembra che sia stato fatto apposta per indicare gli autori del crimine. La seconda moneta fu trovata dai docenti B. Bollone e N. Balossino. Si tratta di un "lepton" che ha sul verso una coppa rituale con manico ("simpulo") e la scritta di Tiberioy Kaisaros, nonché la sigla finale LIS, che indica la datazione: "L" sta per "anno", "I" indica il valore "dieci" e "S" il valore "sei". Quindi ancora una volta anno XVI dell'imperatore Tiberio, che viene a coincidere con una delle date che gli esegeti scelgono per indicare la morte di Gesù: 7 aprile del 30. Nelle icone e nelle monete bizantine vi sono evidenti tracce sindoniche (p.es. la barba a due punte o la ciocca di capelli a forma di virgola che ricade sulla fronte e che corrisponde, sulla Sindone, a una macchia di sangue). Fra icone, monete e Sindone i punti di convergenza vanno dai 145 ai 190 (a volte si arriva a 250!). Per la medicina legale ne bastano 50-60 per stabilire l'identica origine di due rappresentazioni diverse. Come noto, le prime immagini di Gesù si ispirano a modelli pagani, a motivo del fatto che il cristianesimo perseguitato preferiva usare, per motivi di sicurezza, i simboli della cultura dominante (il volto di Cristo, p. es., somigliava a quello di un giovane Apollo sbarbato). Non esiste, prima del V sec., alcuna rappresentazione del crocifisso sul patibolo, poiché si sapeva che sarebbe stato pericoloso divulgare un'immagine politicizzata del Cristo. Si offriva ai credenti solo la rappresentazione stilizzata della croce, in chiave etica, come simbolo di sofferenza umana e di riscatto morale davanti a Dio. Cristo non doveva apparire come schiavo ribelle, tradito nel momento in cui doveva insorgere contro l'oppressore nazionale, ma come un semplice redentore universale che si era preso su di sé i peccati dell'intera umanità. Non a caso veniva raffigurato come un buon pastore, un taumaturgo, un filosofo che insegna... A partire dalla seconda metà del IV sec. appare sui sarcofagi romani un volto di Gesù con barba e capelli lunghi (il più antico dei ritratti pittorici di questo tipo risale invece al VI sec., presso il monastero del monte Sinai).
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Il modello che ha ispirato gli artisti sarebbe il Mandylion (panno) o Tetradiplon (piegato doppio quattro volte), conservato a Edessa (Urfa), in Siria, nelle steppe dell'Anatolia centrale, durante il primo millennio, fino al 944, poi trasferito a Costantinopoli. Vi sono almeno 15 lineamenti comuni nei ritratti del volto di Cristo che vanno dal VI a tutto il XIV secolo. Il volto del Cristo sindonico appare nei mosaici, sulle tavole di avorio, nelle icone più antiche proprio nel momento in cui il centro dell'impero romano, divenuto cristiano, si sposta a oriente. Naturalmente non è il volto di un crocifisso abbruttito dalle sofferenze subite, ma di un vero e proprio "pantocratore", cioè di un "signore dell'universo", ieratico, padrone di sé e di tutto ciò che lo circonda, severo e sereno nello stesso momento, idealizzato e umano, composto nei movimenti e molto equilibrato nelle fattezze. Il Mandylion non era che la Sindone ripiegata per mostrarne soltanto il volto, il quale veniva definito come "immagine non fatta da mano d'uomo" ("achiropita" o "acheiropoietos", ma si usava anche la parola "theoteuktos"). Il lenzuolo venne visto interamente dispiegato soltanto a Costantinopoli. Il tipo di tessitura del telo, filato a mano in maniera rudimentale, con un intreccio a spina di pesce, corrisponde a quello in uso nel Medioriente (ambiente siriano-palestinese), già nel I sec. La composizione del tessuto, con tracce di cotone (non presente in Europa nel periodo coevo) tra le fibre di lino, ma senza alcuna traccia di fibra di origine animale, appare in consonanza con le leggi di purezza dell'ambiente ebraico. Il lenzuolo è simile a quelli trovati in antiche sepolture egizie, a Pompei e in Siria (patria originaria di questa tessitura). È addirittura identico a un lenzuolo trovato nella fortezza di Masada. Negli anni Settanta il botanico Max Frei Sulzer individuò sulla Sindone granuli di polline di piante presenti in Francia e in Italia, ma anche di molte altre presenti in Palestina, a Costantinopoli e nell'Anatolia, ove si trova Edessa. Spore, funghi e acari simili sono stati trovati in tombe dello stesso periodo, a Gerusalemme, ma anche, successivamente, a Edessa e a Costantinopoli. I pollini del telo provengono da almeno 49 specie di piante, di cui solo 17 tipiche dell'Europa (molte di queste piante non esistono più). Il polline più frequente è identico a quello che si trova presso il lago di Tiberiade e nelle zone limitrofe al Giordano.
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Una particolare varietà di cappero (Zygophillum dumosum) si trova soltanto nell'area di Gerusalemme, nella Giordania occidentale e nel Sinai. Del Vicino Oriente appartengono di sicuro 29 piante, di cui 21 crescono nel deserto o nelle steppe. Tre quarti delle specie riscontrate sulla Sindone crescono in Palestina, tra le quali 13 specie sono molto caratteristiche o esclusive del Negev e della zona del Mar Morto. La Sindone deve essere stata esposta all'aria libera pure in Turchia, poiché 20 delle specie riscontrate sono abbondanti in Anatolia (Urfa, ecc.) e quattro nei dintorni di Costantinopoli, e mancano completamente nell’Europa Centrale e Occidentale. Frei disse anche che il telo non fu esposto ai fedeli né ad Atene né a Cipro, dove infatti si pensa sia stato tenuto nascosto dai crociati. Invece lo fu di sicuro in Francia e in Italia. L'analisi chimica spettrografica dell'aragonite trovata nel tessuto indica ch'esso è stato in diretto contatto con una cava o tomba calcarea di Gerusalemme.
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Storia della Sindone
Il più antico riferimento alla Sindone è contenuto sia nei quattro vangeli canonici (Mc 15,46; Mt 27,59; Lc 23,53; Gv 20,7) che in tre apocrifi: il Vangelo degli Ebrei (II sec.), gli Atti di Pilato e il Vangelo di Nicodemo. Si pensa che la riluttanza a lasciare documenti scritti su tale reperto fosse dovuta ai timori che le persecuzioni romane potessero distruggerlo. In ogni caso la Sindone scomparve da Gerusalemme al tempo della guerra giudaica o forse anche prima, viste le persecuzioni giudaiche contro i cristiani (tant'è che le leggende parlano del discepolo Taddeo, che l'avrebbe portata a Edessa verso la metà del I sec.). Probabilmente fu trasferita nei luoghi citati nei vangeli in cui Gesù e i suoi discepoli si rifugiavano per sottrarsi alla cattura da parte dei sacerdoti. Poi, passando per la Decapoli, venne portata a Edessa (attuale Urfa), ove regnava il re Abgar nell'antico regno Osroene della Mesopotamia. Il regno fu conquistato dai Romani intorno al 116 d.C., durante le campagne partiche di Traiano, e perse definitivamente l'indipendenza un secolo dopo, quando regnava Abgar IX (212-214). A Edessa si parlava e si scriveva in aramaico, in una forma molto vicina a quella di Gerusalemme. Quindi era un polo di resistenza al dilagante ellenismo. Abgar VIII (177-212) fu il primo sovrano in assoluto a convertirsi al cristianesimo, anticipando di un secolo Costantino. Quando la comunità cristiana subì persecuzioni al tempo degli imperatori Decio e Diocleziano, la Sindone fu tenuta nascosta in una nicchia delle mura urbane. Un'icona del V secolo ci ha tramandato la presentazione del telo sindonico alla corte del re Abgar V, che governò dal 13 al 50. Nel 325 un vecchio monaco e storico, di nome Niaforis, disse che il telo era stato conservato da Pietro e poi tenuto nascosto, ma già il Vangelo apocrifo degli Ebrei aveva detto la stessa cosa. Peraltro sarebbe stato più naturale ch'esso venisse consegnato alla madre di Gesù, verso cui Giovanni aveva promesso assistenza ai piedi della croce. Nel 340 circa s. Cirillo, a Gerusalemme, fa un riferimento alla Sindone.
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Nel 388 una badessa spagnola di nome Egeria, facendo un pellegrinaggio in Palestina, decise di recarsi anche a Edessa: qui - stando al suo diario - le sarebbe stata mostrata la porta delle mura attraverso cui il telo era entrato. Nel 412 il prefetto Leonzio di Thessaloniki dedica alla Sindone una basilica. Il telo ricompare a Edessa nel 544, all'arrivo dei Persiani di re Cosroe, in guerra con l'impero bizantino (540-561). Giustiniano li sconfisse, firmò una tregua ed edificò una chiesa somigliante all'Haghia Sophia di Bisanzio, proprio per conservare il prezioso reperto, permettendo la visione del volto. Nel 570 un anonimo piacentino dice che a Gerusalemme si trova il sudario ch'era stato posto sul capo di Gesù. Ma doveva trattarsi di una copia. Infatti nel 670 circa Arculfo, vescovo delle Gallie, dice la stessa cosa, cioè vede a Gerusalemme, occupata dai musulmani nel 637, una copia pittorica dell'impronta sindonica, lunga otto piedi, cioè circa 232 cm. Nel 646 il vescovo di Saragozza dichiara che non si può chiamare superstizioso chi crede nell'autenticità del sudario. Un riferimento alla Sindone è presente nel Messale Mozarabico e in vari libri liturgici della Chiesa bizantina. Ma torniamo a Edessa. Qui l'immagine del volto di Gesù viene chiamata anche Mandylion: termine di origine araba che significa "panno". Altro non sarebbe che la Sindone piegata a metà e poi ancora ripiegata quattro volte (tetradyplon, come detto negli Atti di Taddeo), finché al centro del rettangolo si vede solo il volto di Gesù. Sulla base del Mandylion si afferma, a partire dal VI sec., una caratteristica tipologia del volto di Cristo nell'iconografia bizantina, rimasta inalterata sino ad oggi. Perde l'aspetto ellenistico, da giovane dio pagano imberbe, e assume quello di un "pantocratore" dai capelli lunghi e bipartiti, che coprono quasi completamente le orecchie, mentre il collo, pur coperto dalla barba, lo si vuole rigonfio in segno di saggezza, e le spalle, nelle raffigurazioni in cui la testa viene come separata dal corpo, quasi non si vedono. Il naso è lungo e diritto e sulla fronte si disegna un ricciolo di capelli, senza poter capire ch'erano rivoli di sangue causati dal casco di spine.
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Uno dei primi artisti, purtroppo anonimo, che riproduce la 34 Sindone, appena ritrovata a Edessa, lo fa su un vaso d'argento, oggi conservato al Louvre, in cui tenta per la prima volta una ricostruzione di tipo tridimensionale. Nel II concilio di Nicea (787) si sancisce la legittimità della venerazione del Mandylion. Edessa viene occupata dagli arabi nel 638-9: non fu saccheggiata e il telo rimase nella chiesa fatta costruire da Giustiniano, senza poter essere esposta in pubblico. Quello fu il momento in cui nella lingua araba, che aveva sostituito l'aramaico, il telo fu chiamato Mandil, poi grecizzato con la parola Mandylion. Nel 944 il generale bizantino Giovanni Curcas pone l'assedio alla città, che abbandonò solo dopo che l'emiro arabo ebbe consegnato il Mandylion, come avevano richiesto i due imperatori Romano I Lecapeno (920-44) e Costantino VII Porfirogenito (912-59), i quali in cambio offrirono non solo la pace, ma anche 12.000 denari d'argento e la liberazione di 300 giovani nobili prigionieri. Essa così giunse a Costantinopoli, naturalmente contro la volontà dei cristiani di Edessa. Lo stesso imperatore descrive il volto sindonico come dovuto a "una secrezione liquida senza materia colorante né arte pittorica", un'immagine evanescente, di lettura difficile, formata di sudore e di sangue. A Costantinopoli il telo viene messo nel santuario di Blacherne (poi in quello del Faro, all'interno del Bucoleon) e il 16 agosto se ne istituì la festa, tuttora presente nel calendario ortodosso. Nella Biblioteca Nazionale di Madrid si trova un codice greco di Giovanni Skylitzes, riferito alla storia degli imperatori cristiani d'oriente dal 812 in avanti. Ebbene, una miniatura illustra proprio il momento in cui l'arcivescovo Gregorio il Referendario (personaggio di spicco della corte di Romano I Lecapeno) consegna la Sindone a Costantino Porfirogenito. Non usando la prospettiva, l'artista fa emergere letteralmente il volto di Cristo dal lenzuolo, come se fosse una testa staccata dal corpo, mentre il basileus vi si accosta per baciarlo. Tutta la vicenda di Edessa e di Costantinopoli è narrata nel Sinassario scritto da Simeone Metafraste (logoteta sotto gli imperatori Niceforo Foca, Giovanni Tzimisce e Basilio II), che in Europa occidentale verrà conosciuto solo nel 1978. Fu lui ad attribuire alla Sindone la parola "Tetradyplon", cioè "piegato in quattro su di sé", in modo da rendere visibile solo il volto.
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Intorno al 950 un medico di nome Smera, che aveva esercitato a Edessa e poi a Roma, tradusse in latino un testo siriaco in cui si parlava dalla Sindone. Nel 1080 circa Alessio I Comneno chiede aiuto all'imperatore Enrico IV e a Roberto di Fiandra per difendere la Sindone a Costantinopoli, minacciata dai turchi. Nel 1147 Luigi VII re di Francia venera la Sindone a Costantinopoli, alla presenza del basileus Manuele Comneno. Ma la vedono anche alcuni intellettuali di spicco, come il lombardo Orderico Vitale (1075-1142), autore di una imponente Historia ecclesiastica, e dal giurista, politico e scrittore inglese Gervasio di Tilbury (1155- 1234). Il telo fu visto anche dall'abate benedettino Nicholas Saemundarson, giunto appositamente dall'Islanda nel 1151. E, prima ancora, nel 1058 da un arabo cristiano, lo studioso Abu Nasr Yahya. Il "Codice Pray", una pergamena della Biblioteca Nazionale di Budapest, databile tra il 1150 e il 1195, presenta una miniatura che riproduce la Sindone. Motivo di ciò sta nel fatto che una delegazione ungherese si era recata a Costantinopoli per combinare un matrimonio politico tra i figli dei rispettivi sovrani, e nell'occasione avevano potuto ammirare il lenzuolo conservato nella cappella imperiale. Un miniaturista riprodusse la sagoma, restando soprattutto colpito dal gruppo di quattro strani fori carbonizzati a forma di elle maiuscola che si ripetono per quattro volte sul telo. Nel 1171 Manuele I Comneno mostra al re di Gerusalemme il sudario di Cristo. Gli imperatori erano così entusiasti di questo reperto che fecero vari piccoli tagli nella zona dei piedi dell'impronta anteriore, al fine di poterli conservare fra gli arredi personali, probabilmente da utilizzarsi come forma di protezione superstiziosa durante le battaglie. Uno di questi frammenti si conservò nella Sainte Chapelle di Parigi per cinque secoli, poi andò perduto durante la rivoluzione.
Della Costantinopoli cristiana rimase assai poco quando nel 1204 fu occupata dai crociati latini. L'immensa biblioteca imperiale andò distrutta. I crociati cercavano oggetti preziosi. I prelati latini erano a caccia di reliquie. Robert de Clary, cronista di quella quarta crociata, scrive che tutti i venerdì la Sindone era esposta per intero a Costantinopoli, ma che poi fu trafugata dai crociati.
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In una lettera del 1205, Teodoro Angelo Comneno, fratello di Michele Angelo della famiglia del deposto imperatore di Costantinopoli, lamenta la scomparsa della Sindone e sostiene ch'essa si trova ad Atene. Essa compare l'ultima volta negli elenchi ufficiali di Costantinopoli nel 1207. Nel 1208 uno dei capi della crociata, Othon de la Roche, cui toccò la signoria di Atene (di cui fu duca), aveva ricevuto la Sindone dal marchese Bonifacio di Monferrato (che, dopo la crociata, divenne re di Tessalonica e di Creta). Le truppe di Othon de la Roche erano i Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni e i Cavalieri del Tempio o Templari. Solo quando si accorse che i bizantini, con l'aiuto dei Bulgari e dei Tartari Comani, minacciavano di riprendersi i territori perduti, Othon aveva deciso, nel 1208, di affidare ai Templari la Sindone, che la portarono in Francia, a Besançon, ove resterà sino al 1349. Di Othon si perdono le tracce dopo il 1225. Nel 1241 Baldovino II de Courtenay, quinto imperatore latino di Costantinopoli, invia al re francese Luigi IX la tavola che aveva contenuto la Sindone, preziosamente incorniciata, su cui era stato dipinto il volto sindonico. Nel 1307 i Templari vengono fatti arrestare dal re Filippo IV il Bello, per privarli dei loro immensi beni. Nel 1312 Filippo ottiene da papa Clemente V la condanna dell'Ordine per eresia: una delle accuse è quella di praticare il culto segreto di un "uomo barbuto", un volto ritenuto "santo" (privo però di aureola!), che nascondevano appunto a Besançon. Ma loro non ammisero mai niente, salvo Raoul de Gizy, sotto tortura. La cattedrale della città, nel 1349, andò a fuoco per ragioni dolose: coloro che rubarono la reliquia[12] vollero far credere che fosse andata distrutta tra le fiamme. Senonché fra il 1353 e il 1356 la Sindone appare a Lirey (diocesi di Troyes), in possesso di Goffredo di Charny, cavaliere crociato, che fece costruire una chiesa per ospitare il lenzuolo (sua moglie era una discendente di Othon de la Roche).
[12] Sulla parola "reliquia" si potrebbero dire tante cose, anche positive, poiché a tutti fa piacere avere un ricordo particolare di qualcuno, da considerare molto prezioso. Di sicuro però non ci si può accostare a una reliquia con l'atteggiamento di chi pensa di poter ottenere dei benefici particolari toccandola.
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Poiché vi era la guerra dei Trent'anni, il nobile aveva bisogno di molto denaro e pensò di organizzare nel 1355 un'esposizione del reperto nella Collegiata di Lirey, sperando di avere un afflusso significativo di pellegrini. E così in effetti fu. Il vescovo di Troyes, Henri de Poitiers, geloso di questa iniziativa religiosa promossa da un laico, dichiarò subito che il reperto era un falso. Goffredo morì nella battaglia di Poitiers (1356) e non rivelò mai come fosse entrato in possesso del lenzuolo (tra gli ascendenti della famiglia Charny vi erano tuttavia cavalieri della quarta crociata e vari Templari). Sua moglie pensò di trasferirsi, portando con sé la Sindone, in una rocca della sua famiglia, a Montfort-en-Auxois. Tuttavia il figlio di Goffredo, nel 1389, pensò di far tornare il telo a Lirey, nella chiesa che suo padre aveva fatto appositamente costruire, per allestire una nuova ostensione, senza chiedere il permesso del vescovo di Troyes, Pierre d'Arcis, che se ne risentì a tal punto da convocare un sinodo per vietare al clero di far parola della Sindone. Per tutta risposta Goffredo II e buona parte del clero si appellarono all'antipapa di Avignone Clemente VII, che, nel 1390, permise sì le ostensioni (Clemente VII era imparentato con gli Charny), ma a condizione di dichiarare esplicitamente che quella non era la vera Sindone, anche perché gli imperatori bizantini ancora ne reclamavano la restituzione. Nel 1418 i canonici di Lirey, temendo che venisse coinvolta nella guerra fra Borgogna e Francia, affidarono la reliquia al conte Umberto de la Roche, che morì nel 1448, lasciandola alla moglie Margherita di Charny, nipote di Goffredo I e gran dama della Franca Contea. Questa, invece di restituire il telo ai canonici, lo consegnò (in cambio di benefici) nel 1453 alla duchessa Anna di Lusignano e di Cipro, moglie del duca Ludovico di Savoia, che viveva a Chambéry, capitale di Casa Savoia, grande collezionista, insieme al marito, di reliquie religiose. Sperava in cambio di ottenere il riscatto del presunto erede del defunto conte di Charny, che era prigioniero dei Turchi. Margherita fu colpita da scomunica e morì nel 1459. I duchi di Savoia nel 1502 fecero costruire una cappella nel castello di Chambéry in cui custodire il lenzuolo, senza prevedere un culto pubblico. Ma nel 1506 papa Giulio II approva la messa con "colletta" e Ufficio proprio della Sindone. La festa liturgica verrà ri38 confermata da papa Clemente X nel 1673, mai abrogata.
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Nel 1532 la cappella di Chambéry prende fuoco: l'urna d'argento che contiene la Sindone si surriscalda e una goccia del metallo fuso brucia un angolo del telo ripiegato su se stesso. Le suore clarisse di Chambéry, due anni dopo, cuciranno i 29 rattoppi oggi visibili. Non era la prima volta che la Sindone aveva rischiato d'essere incendiata. Durante le guerre (1536-61) tra Francesco I e Carlo V la Sindone viene trasferita a Nizza, poi a Vercelli e di nuovo a Chambéry. I Savoia erano schierati a fianco di Carlo V. Nel 1578 Emanuele Filiberto trasferisce la Sindone a Torino, per abbreviare il viaggio all'anziano arcivescovo di Milano, card. Carlo Borromeo, che vuole venerarla a Chambéry, sperando che il flagello della peste abbia termine. Ogni 30 anni si succedono ostensioni per particolari celebrazioni di Casa Savoia, o per giubilei. Nel 1694 il lenzuolo viene sistemato definitivamente nella cappella del Guarini a Torino. Vengono rinforzati i rattoppi. Nel 1898 l'avvocato Secondo Pia esegue la prima fotografia. Nel 1931 e 1933 due ostensioni pubbliche della Sindone. Nel 1939 viene nascosta, a causa della guerra, a Montevergine (Avellino). Nel 1946 ritorna a Torino. Nel 1950 viene trovato casualmente in un antico edificio inglese appartenuto ai Templari (Templecombe, nel Somerset) il volto dipinto del Cristo sindonico. Nel 1969 si istituisce una commissione scientifica per studiarla. Nel 1973 vi è la prima ostensione televisiva in diretta. Nel 1978 ostensione pubblica e primo Congresso Internazionale di studi a Torino. Nel 1983, per volontà testamentaria di Umberto II di Savoia, la Sindone passa alla Santa Sede, che ne nomina "custode" pro tempore l'arcivescovo di Torino. Nel 1988 viene prelevato un frammento del telo per compiere un'indagine radiocarbonica: il test del C14 colloca la nascita della Sindone tra il 1260 e il 1390 d.C. Molti scienziati contestano queste conclusioni. Nel 1997 scoppia un incendio nella Cappella del Guarini: la Sindone viene salvata dai vigili del fuoco.
Nel 1998 nuova ostensione pubblica. Lo sarà di nuovo nel 2000, in occasione del Giubileo. Nel 2002 è stato rimosso il restauro operato dalle suore Clarisse di Chambéry nel 1534; tutti i rappezzi sono stati asportati e sono stati raschiati i bordi carbonizzati dei fori. Sul retro della Sindone è stata cucita una nuova tela che risale a una cinquantina d'anni fa. Sono state anche eseguite numerose foto digitali dettagliate, indispensabili per poter effettuare studi più approfonditi.
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Motivi di autenticità della Sindone
Della Sindone conservata a Torino (il lenzuolo di lino è lungo 4,36 m. e largo 1,10 m.) parlano non solo i quattro vangeli canonici, ma anche tre apocrifi: Vangelo degli Ebrei, Atti di Pilato e Vangelo di Nicodemo. È inoltre attestata dalla tradizione storica: per i primi sette secoli si trova a Gerusalemme, a Edessa fino al 944, poi a Costantinopoli sino alla quarta crociata (1204), poi in varie località francesi e, infine, dal 1578 a Torino. Quanto è accaduto all'uomo della Sindone (sevizie, morte, sepoltura) corrisponde a quanto descritto nei vangeli: corona di spine (Mc 15,17; Gv 19,2)([13]; flagellazione (Mc 15,15; Gv 19,1); torture (Mc 15,19s.; Gv 19,3) e trave sulla spalla (Gv 19,17), cioè il patibolo a cui venivano legate le braccia durante il tragitto verso il palo dell'esecuzione. "Allora Pilato prese Gesù e lo fece flagellare, perché fosse crocifisso" (Gv 19,1; Mc 15,15). I Romani, a seconda della gravità del reato e del tipo di colpevole, usavano fruste molto diverse tra loro. Il flagrum taxillatum o plumbum, per i condannati a morte, era costituito da almeno tre cordicelle che terminavano con delle punte di piombo o con degli ossicini, uniti tra loro da una sbarretta diritta di pochi centimetri. Nella Sindone le frustate furono date da mani esperte su tutto il corpo nudo, legato a una colonna, ad eccezione della regione cardiaca, poiché il condannato doveva morire sulla croce, cioè con un'esecuzione capitale voluta in qualche modo col consenso popolare.
[13] In realtà nella Sindone appare un "casco di spine", in contrasto con l'iconografia tradizionale. Da notare che questa trovata ingiuriosa da parte dei soldati, che si sono sentiti di utilizzarla proprio perché avevano capito che, una volta inferta quella pesantissima fustigazione, il destino di Gesù, in un modo o nell'altro, era segnato, non trova riscontri nella storia romana. Fu così inumana che vien da pensare che sul Getsemani non avvenne solo una semplice trattativa tra l'autoconsegna di un leader politico e, in cambio, la fuga dei propri seguaci, ma anche uno scontro armato vero e proprio, in cui alcuni soldati romani ci rimisero la vita. Uno scontro che gli evangelisti avrebbero voluto minimizzare nel gesto della recisione dell'orecchio del servo del sommo sacerdote ad opera di Pietro. A meno che la spiegazione di un trattamento così vergognoso non vada cercata nella convinzione che i Romani avevano di una imminente insurrezione durante la Pasqua, che assai difficilmente avrebbero potuto fronteggiare.
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I flagellatori dovettero essere due, poiché le tracce dei colpi sono simmetriche, disposte oblique verso l'alto sulla parte alta della schiena, orizzontali alle reni, ed oblique verso il basso, nelle gambe. Di regola le frustate erano assai meno di quelle che qui hanno prodotto circa 370 lesioni affiancate a due a due (più quelle che non si vedono), a meno che non venisse usata la stessa fustigazione come esecuzione capitale, ma in tal caso si sarebbe usata una frusta diversa (la securis).[14] Normalmente, infatti, i condannati a morte di croce venivano flagellati mentre si recavano nudi, con le braccia legate alla trave portata dietro le spalle, al luogo del supplizio.[15] Se Gesù fosse stato flagellato, come i suoi due compagni, durante il viaggio al Calvario, i colpi sarebbero distribuiti disordinatamente sulle varie parti del corpo. La Sindone invece ci rivela metodicità e quasi regolarità nella distribuzione e direzione dei colpi a raggiera. Peraltro Gesù non arrivò nudo alla croce, in quanto i militari si giocarono a dadi la veste senza cuciture, anche se probabilmente morì nudo, in quanto nella tomba, se avesse avuto un perizoma[16], non gli avrebbero incrociato le mani sul pube, ma le avrebbero lasciate affiancate al corpo. Essendo già irrigidite, dovettero forzarle in quella posizione. L'impronta del secondo legaccio è ben visibile all'altezza del petto. Peraltro la lunghezza notevole delle braccia e delle mani lascia pensare ch'esse si fossero come slogate sulla croce (nell'articolazione scapolo-omerale) e che poterono restare incrociate sul corpo sindonico solo in virtù di un legaccio posto attorno al lenzuolo, alla loro altezza, per tenerle unite, anzi incrociate (un altro legaccio fu messo all'altezza delle caviglie, per unire le due estremità del lenzuolo).
[14] Tale punizione fu in uso almeno fino all'imperatore Onorio, che nel 390 la ordinò contro l'eretico monaco Gioviniano.
[15] L'impronta obliqua lasciata dalla trave orizzontale parte dall'alto della spalla destra e arriva fin sotto la scapola sinistra. Ciò perché tale legno non era soltanto legato alle braccia del condannato ma anche al suo piede sinistro: il camminare quindi imprimeva alla trave un movimento verso il basso per cui essa gravava maggiormente sulla spalla sinistra e infatti questa spalla ci appare nella Sindone più tormentata che non la destra.
[16] Non pochi sindonologi han rilevato che un perizoma o anche solo una mentoniera avrebbero impedito l'impressione di tutta la superficie corporea sul telo. Di fatto solo la parte inferiore degli arti inferiori, fino alle ginocchia, risulta meno marcata, e ciò va attribuito al legaccio posto all'altezza delle caviglie per tenere il lenzuolo ripiegato sotto i piedi.
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La flagellazione fu usata da Pilato come una forma di screditamento pubblico nei confronti di un messia politico la cui popolarità era troppo grande per poter procedere a una condanna veloce, a un'esecuzione sommaria. Il vangelo di Marco invece la presenta come un rito preliminare alla crocifissione. Sembra non sapere ch'essa fu alquanto devastante, al punto che, se anche gli fosse stata risparmiata la croce, ben difficilmente il Cristo sarebbe riuscito a sopravvivere.[17] Pilato aveva bisogno d'indurre la folla di Gerusalemme a credere che, di fronte a quella pesante flagellazione, la crocifissione poteva anche essere considerata come un esito inevitabile del processo. Se questa folla avesse comunque preferito la liberazione del condannato, questi sarebbe stato consegnato soltanto dopo aver subìto una flagellazione così cruenta da farlo diventare assolutamente innocuo per il potere di Roma. Si arriva a una conclusione del genere solo leggendo, tra le righe, il quarto vangelo. Dopo la flagellazione i soldati condussero Gesù nell'atrio del Pretorio e vi convocarono tutta la coorte. Lo avvolsero in una veste di porpora e, intrecciata una corona di spine, gliela misero sul capo e cominciarono a salutarlo: "Salve, o re dei Giudei". Sul volto del Cristo si trovano molte escoriazioni, specie sulla metà destra, che è deformata. Le due arcate sopracciliari presentano delle piaghe contuse, prodotte da pugni o bastonate. Dicono infatti i vangeli che gli picchiavano la testa con una canna, gli sputavano addosso e, piegando il ginocchio, gli si prostravano davanti. E gli davano schiaffi. (Mc 15,16 ss.; Gv 19,2 s.). Il dileggio o lo scherno era un elemento caratterizzante del supplizio della croce: non dimentichiamo che questa esecuzione capitale verrà eliminata solo al tempo di Costantino (che rinunciò al proprio culto a vantaggio di quello cristico) e di Teodosio (che fece del culto cristico qualcosa di così esclusivo da vietare i culti pagani), a testimonianza che il cristianesimo, eticamente, aveva vinto.
[17] Si può qui ricordare che non solo spettava ai procuratori o prefetti romani il potere di vita e di morte su chiunque fosse sotto la loro giurisdizione, ma dipendeva da loro, non essendoci una regola codificata, la durata e l'intensità della fustigazione dei condannati, a differenza della legislazione giudaica, che vietava che i colpi superassero il numero di 40 e che fossero particolarmente debilitanti.
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La lesione più evidente è prodotta da una larga escoriazione sullo zigomo destro, che arriva sino alla palpebra, visibilmente più gonfia di quella a sinistra. Il naso è deformato da una frattura della cartilagine dorsale, prodotta probabilmente da una bastonata o da una caduta. Si vedono scendere due rivoli di sangue. Altre escoriazioni si vedono sulla guancia sinistra, sulla punta del naso e sul labbro inferiore. La corona di spine, fissata attorno al capo mediante un laccio, era una specie di calotta formata di rami spinosi intrecciati, molto pungenti: le spine dovevano essere almeno 60-70, poiché le colature di sangue sono una trentina (solo sulla fronte e le tempie si possono intravedere almeno 13 diverse perforazioni della pelle). Il dolore provocato dalle spine dovette essere molto intenso, se si pensa che il cuoio capelluto è uno dei tessuti più ricchi di "punti dolorifici" del corpo umano. La legislazione romana vietava, in fase immediatamente precedente all'esecuzione, di torturare i condannati a morte. Peraltro qui non era ancora stato emesso il verdetto definitivo, per cui senza il consenso di Pilato sarebbe stato impossibile agire in tale maniera, tanto meno nei locali del Pretorio. Non a caso un analogo crudele episodio non è mai stato ricordato in nessun processo storico di condanna alla morte di croce tramandatoci dall'antichità. Le torture poterono essere inflitte al Cristo soltanto dopo la flagellazione, ed esse furono non solo feroci (con la corona di spine e i colpi inferti) ma anche denigratorie del fatto che il Cristo era intenzionato a compiere un'insurrezione armata la notte precedente il processo: cosa che se fosse andata a buon fine, non avrebbe dato alcuna possibilità di manovra alla guarnigione romana stanziata nella città santa. "Allora Pilato lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso" (Gv 19,16; Mc 15,15).
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Avendo già subìto una pesante flagellazione, Gesù cadde più volte lungo il percorso e non riuscì a portare il patibulum sino alla cima del Golghota[18]; per questo i soldati obbligarono Simone di Cirene ad aiutarlo (Mc 15,21).
La Sindone attesta le cadute mostrando sangue, terriccio e contusioni nelle ginocchia, nel tallone e al naso (il che fa pensare che fosse stato legato alla trave e che non potesse difendersi in alcun modo mentre cadeva): in particolare vi è una zona escoriata e contusa tra lo zigomo destro e il naso, provocata probabilmente da una caduta, la cui violenza ha rotto la cartilagine del naso. Si sono notate anche delle escoriazioni sopra le scapole, dovute al peso della trave, ch'era circa di 40-45 chili (che comunque un uomo di 80 chili, alto 180 centimetri circa, come appare quello sindonico, in condizioni normali non avrebbe avuto difficoltà a trasportare). Ma le ferite sulle scapole appaiono più appiattite o slargate, non lacerate dallo sfregamento col legno: il che ha fatto pensare ch'esse fossero protette dalla tunica di lana, su cui i soldati, infatti, ai piedi della croce, gettarono la sorte coi dadi al momento di dividersela. Giunto sul Golghota (a piedi nudi, come attesta la polvere trovata sui talloni), si pensò alla soluzione dei chiodi anche per i polsi, che generalmente venivano legati con corde (naturalmente coi chiodi la morte era affrettata e non da escludere che lo si sia fatto apposta, per maggiore sicurezza).[19] I chiodi (da carpentiere) di 12 centimetri, con quattro facce a spigolo, passavano tra l'ulna e il radio con relativa facilità, lesionando il nervo mediano ma senza rompere alcun osso: la conseguenza era la contrazione dei pollici verso l'interno della mano; infatti nella Sindone non si vedono.
[18] I condannati a morte, una volta legati alla trave orizzontale o patibulum, dovevano portarla attraverso la città, in modo che tutti potessero vederli, fino al palo verticale già pronto sul luogo dell'esecuzione, al quale sarebbero stati facilmente infissi. Difficile dire se il fatto che al Cristo misero i chiodi, invece che delle corde, sia attribuibile alla volontà di Pilato di vederlo morto il più presto possibile o alla casualità del trasporto della trave da parte di Simone di Cirene, che obbligò i soldati a sciogliere Gesù.
[19] Da notare che in tutte le rappresentazioni antiche della crocifissione i chiodi sono piantati nelle mani, anche se in questo modo il corpo non poteva rimanere appeso in croce. L'ipotetico falsario medievale non poteva saperlo o comunque non avrebbe avuto motivi per contraddire le rappresentazioni della tradizione, rischiando così di dare adito a sospetti. Meno che mai poteva sapere che l'estensione accentuata delle dita delle mani era una conseguenza della ricerca di equilibro di Gesù sulla croce.
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Gesù fu inchiodato ai polsi, mentre era sdraiato per terra e poi fu issato sullo stipes. [20] Dopodiché, appeso solo per le braccia, gli fissarono i piedi, tra loro sovrapposti (il sinistro è sul destro), con un solo chiodo, direttamente contro il palo verticale, senza alcun appoggio, semplicemente obbligandolo a flettere un po' le ginocchia. I Romani non usavano, in genere, dei suppedanei o delle predelle o dei sedili da mettere sotto i glutei o sotto i piedi, che aiutassero il condannato a resistere oltre il dovuto. La crocifissione era considerato il più crudele dei supplizi, ma non permetteva un tempo di sopravvivenza molto lungo. Di regola, i crocifissi morivano asfissiati (al massimo, se legati con corde nelle braccia, potevano durare un paio di giorni)([21]: un qualunque appoggio fissato allo stipes, su cui potersi reggere, non avrebbe fatto che prolungare l'agonia. Le braccia inevitabilmente si slogavano, e infatti nella Sindone appaiono più lunghe del normale. In Gesù doveva aver contribuito al decesso anche l'enorme spargimento di sangue già al momento della flagellazione, quindi non è escluso che la breve permanenza sulla croce sia stata causata anche da un infarto miocardico. Trafittura al costato. Il colpo di lancia al costato[22], in direzione del cuore, fu dato poche ore dopo la morte, per constatare l'avvenuto decesso e permettere quindi la sepoltura del cadavere, che generalmente avveniva in una fossa comune.
([20] Di regola gli stipes erano di due tipi: humilis, cioè bassi, per gli schiavi, che potevano anche essere sbranati da animali randagi; e sublimis, cioè alti, per personaggi di un certo rango, in modo tale che la croce si vedesse anche da lontano. Considerando che un militare diede da bere a Gesù con una spugna legata a una canna di issopo, si capisce facilmente a quale stipes fu inchiodato.
[21] Se si lega un condannato per i polsi e lo si lascia, sospeso, senza che tocchi per terra, nell'arco di un'ora al massimo muore: il cuore non regge per insufficienza respiratoria. Non a caso la Sindone mostra dei rivoli di sangue che nei piedi, nelle mani e nelle braccia seguono varie direzioni: segno che il Cristo, spostando il peso dai piedi ai polsi e viceversa (accasciamento e raddrizzamento), cercava di muoversi per poter respirare e dire le ultime parole.
[22] A proposito di questo colpo di lancia, è stato notato che la spalla destra è più abbassata della sinistra probabilmente perché quel colpo, avendo aperto la cavità pleurica, ha fatto afflosciare il polmone destro e conseguentemente abbassare la spalla destra. D'altra parte anche la gamba sinistra appare più corta dell'altra e il piede lievemente storto, tanto che nell'antichità si pensava fosse zoppo, e non a caso gli iconografi lo rappresentavano su un suppedaneo inclinato (a questo piedistallo, quando lo si paragonerà a una bilancia, la Chiesa bizantina darà un significato simbolico di giustizia). In realtà ciò è una conseguenza del metodo d'inchiodatura dei piedi (un solo chiodo passava per le ossa del metatarso dei piedi sovrapposti) e della rigidità cadaverica repentina, due aspetti scoperti solo in tempi recenti.
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Il sangue della ferita del torace, tra la quinta e la sesta costola, è sgorgato da una persona già cadavere: la parte corpuscolare o cellulare è separata da quella seriosa (Gv 19,34). Il liquido chiaro serioso, accumulandosi nello spazio pleurico, avrebbe dovuto essere di più del sangue fuoriuscito: non a caso nelle prime traduzioni del IV vangelo la sequenza era "acqua e sangue" e non il contrario. Anche l'analisi dell'impronta del cadavere sul lenzuolo ha dimostrato la presenza del rigor mortis già sulla croce (p.es. il capo è flesso in avanti, come doveva essere sulla croce al momento del decesso, inoltre gli arti inferiori sono disposti in maniera asimmetrica, essendo stato un piede inchiodato sull'altro). Gli studi scientifici della Sindone sono praticamente iniziati quando venne fotografata per la prima volta nel 1898 dall'avvocato Secondo Pia, il quale scoprì che la figura umana impressa sul telo si vedeva meglio sul negativo della foto che non sul telo stesso. Due fenomeni quindi si notano facilmente: le parti che nella realtà sono chiare appaiono scure e viceversa; le parti che nella realtà sono a destra appaiono a sinistra e viceversa. Questo esclude che l'immagine possa essere un dipinto. Nessuno sarebbe stato in grado di produrre un'immagine in negativo prima ancora che fosse stata inventata la fotografia, cosa che avverrà nel 1850. Peraltro le immagini non hanno alcuna direzione, come appunto accade nei dipinti. Tuttavia molti accusarono Pia di aver truccato le foto o di aver usato delle lastre difettose. Non solo, ma cominciò a emergere la convinzione secondo cui quel reperto sarebbe stato prodotto artisticamente nel Medioevo, anche se ovviamente non si riusciva a spiegare il motivo per cui un artista avrebbe prodotto un'immagine che il pubblico non poteva vedere nella stessa maniera. Ci vorranno altri 30 anni prima di poter dimostrare che quel lenzuolo si comportava come un negativo fotografico. Infatti solo quando, nel 1931, un secondo fotografo, Giuseppe Enrie, fu autorizzato a compiere lo stesso lavoro del precedente, si dovette ammettere che quel reperto possedeva delle caratteristiche ben strane, ovvero che quella sagoma poteva effettivamente rappresentare un uomo crocifisso.
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Quanto nel cristianesimo orientale si era sempre creduto per tradizione, senza che mai nessuno avesse mai avuto il coraggio di metterne in dubbio l'autenticità; nell'Europa borghese e culturalmente positivistica, nonostante gli enormi progressi scientifici, pochissimi avrebbero messo la mano sul fuoco sul fatto che quel condannato a morte fosse davvero Gesù Cristo. Eppure saltava subito agli occhi una stranezza difficilmente spiegabile: mentre in una pittura i punti in rilievo di un qualunque soggetto sono convenzionalmente chiari e scuri o in ombra quelle rientranti, nella Sindone invece era il contrario. Già Paul Vignon nel 1902 se n'era accorto. Peraltro a una certa distanza l'immagine si vede bene, ma quanto più ci si avvicina, tanto più tendono a scomparire i confini tra la sagoma e lo spazio circostante. La Sindone non sembra essere un oggetto disposto a essere analizzato troppo scientificamente, per poter essere compreso nella propria "umanità". Tuttavia solo negli anni Settanta ci si convinse, tra i sindonologi, che in quel telo non esistevano sostanze coloranti o tecniche pittoriche (benché il chiaroscuro dell'immagine sia di colore giallastro con una certa uniformità cromatica). Non si vedeva alcuna direzionalità, alcuna programmata concatenazione di tratti. Peraltro l'impronta s'è formata solo là dove erano assenti le macchie di sangue, quindi è molto superficiale (da notare che solo nel 1981, con la ricerca di John Eller, si dirà che quelle macchie erano vero sangue umano). Addirittura nel 1977 i ricercatori americani E. J. Jumper e J. P. Jackson, utilizzando strumenti informatici, evidenziarono la presenza di un'informazione tridimensionale, che - come noto - è possibile solo quando l'illuminazione ricevuta dall'oggetto dipende dalla sua distanza. In genere le immagini chiare sacrificano la tridimensionalità e viceversa: qui invece si possono osservare entrambe le caratteristiche. Un anno dopo l'équipe del prof. italiano G. Tamburelli riuscì col computer a togliere al volto sindonico tutti i segni delle torture patite e a "ripulire" l'immagine dalle modifiche prodotte dalla struttura geometrica della tela e dalle vicissitudini da essa subite nel corso dei secoli, esaltando i dettagli con potenti ingrandimenti.
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Senza introdurre alcuna informazione aggiuntiva, l'équipe riuscì a ottenere l'unica immagine tridimensionale esistente del volto di Cristo antecedente alla crocifissione. L'immagine è tridimensionale sia per l'immagine frontale che per quella dorsale e si comporta come un negativo fotografico. Le informazioni tridimensionali possono essere utilizzate per ricostruire il corpo avvolto dal lenzuolo (è possibile una relazione inversamente proporzionale al quadrato della distanza). L'immagine corporea ha una risoluzione pari a 5 mm, che permette di distinguere particolari di dimensioni fino a circa mezzo centimetro. La cosa strana è che l'intensità dell'immagine varia inversamente con la distanza tra la tela e il corpo, cioè quanto più il corpo era vicino alla tela, tanto più l'immagine appare scura invece che chiara (senza che questo voglia dire che il telo abbia avuto una parte attiva nella realizzazione delle differenze di sfumatura). Non solo, ma la densità dell'immagine non dipende da variazioni nell'intensità della radiazione che l'ha prodotta. Quindi l'intensità è stata omogenea in tutto il corpo, senza alcuna difformità tra le parti. Tuttavia è proprio la tridimensionalità ad apparire sconcertante. In fotografia la rielaborazione a 3D è possibile soltanto quando il grado d'illuminazione ricevuto dall'oggetto dipende in qualche modo dalla sua distanza (come p.es. nelle fotografie stellari). In caso contrario occorrono almeno due fotografie dello stesso oggetto, separate da una certa distanza (come p.es. nella fotografia stereoscopica). Nella Sindone il ritratto in 3D presenta un corpo del tutto naturale, proporzionato, privo di distorsioni o sbavature che non siano scientificamente spiegabili.[23] La formazione della sagoma è avvenuta in modo assolutamente uniforme e a prescindere dalle caratteristiche della superficie corporea e anche da quello del telo, che avrebbe potuto essere non di lino ma di cotone o di lana. Anzi, se non ci fosse stato alcun telo ma una semplice parete bianca muraria o lignea o di gesso, l'effetto tridimensionale sarebbe stato probabilmente identico, a prescindere dalle sostanze profumate di cui la Sindone poteva essere intrisa. Grazie a questi e ad altri studi scientifici si è arrivati a risultati per molti versi sconcertanti.
[23] Le distorsioni che si notano in corrispondenza della schiena, delle mani, delle spalle e dei polpacci del cadavere sono causate dall'avvolgimento del lenzuolo e dai legacci che lo tenevano unito al corpo.
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Il corpo impresso nella Sindone è in stato di netto rigor mortis e in perfetto stato di composizione, per cui dovette rimanere avvolto nel lenzuolo per una decina d'ore circa. La Sindone non è un dipinto o un disegno, non presenta tratti di contorno o di riempimento, né bordi definiti. Non vi sono segni di pennellate o di colpi di spatola o di colori applicabili coi polpastrelli delle dita. Sopra di essa non è stato steso alcun fondo di preparazione. L'immagine non risulta dall'applicazione di una sostanza colorante di tipo minerale, vegetale o animale (pigmento, tinta, polvere, inchiostro...), e neppure è stata ottenuta da un cadavere per contatto o dallo stampo di un metallo caldo. Non vi sono tracce di cementazione o di pigmenti (oleosi o acquosi) negli interstizi fra le singole fibrille di lino componenti il filo della trama, tali da poter giustificare una formazione artificiale dell'immagine. D'altra parte solo le fibrille più esterne dei fili di lino sono interessate dall'immagine: lo attestano gli esami spettroscopici e termografici. L'impronta non penetra negli avvallamenti della tessitura e non può essere stata formata da essudazione corporea o da unguenti e aromi come mirra e aloe (queste ultime non sono state trovate nel corpo ma nel telo, in maniera irrilevante e disomogenea). Non ci sono sbavature, né diffusione per capillarità tra le fibrille del tessuto, come p.es. è avvenuto con l'acqua che gli è stata gettata sopra per spegnerla dal fuoco. L'immagine è termostabile alle alte temperature, ai gradienti termici e all'acqua e non può essere sbiancata o mutata da alcun agente chimico standard. È rimasta se stessa nonostante che per tre volte sia stata molto vicina a incendiarsi. L'immagine corporea è fluorescente ai raggi ultravioletti, ed è visibile nella sua completezza solo se un osservatore è a circa due metri di distanza. Nel 2011 l'ENEA di Frascati ha dimostrato che soltanto utilizzando la luce UV e VUV di un laser a eccimeri impulsato della durata di alcuni miliardesimi di secondo è possibile colorare il lino in modo similsindonico. Ci sono tracce di emoglobina. Il gruppo sanguigno è AB, tipico dei paesi mediorientali. Le macchie di sangue non sono in rilievo, ma come segnate a fuoco dentro il tessuto. Le impronte del sangue seguono perfettamente la legge dell'emodinamica e non presentano sbavature o segni di distacco, come sarebbe potuto avvenire se il corpo fosse stato trafugato togliendolo da essa.
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La salma, non avendo tracce di putrefazione, rimase avvolta nel lenzuolo, legato con bende, il tempo necessario per arrivare a notte fonda, quando nessuno avrebbe potuto assistere alla trasformazione. Il corpo si è volatilizzato quando la morte aveva prodotto una totale rigidità cadaverica, e le palpebre non si sono aperte: quindi non vi è stato un "risveglio" come lo intendiamo noi. Semplicemente tutto il corpo, in tutte le sue parti, così come si trovava nelle sue fattezze mortuali, ha emesso improvvisamente una sorta d'incandescenza o (ir)radiazione[24] che ha causato una completa e uniforme immagine a specchio, anche se il volto presenta una luminosità maggiore del 10% rispetto al resto (da notare che l'immagine dorsale, che, se si esclude il volto, è quella che si vede meglio, non è influenzata dal peso del corpo).[25] Nel 1954 il teologo di Chicago p. F. L. Filas, sulla base di alcune lastre fotografiche del volto sindonico, affermò d'individuare sulla palpebra destra impronte simili a una moneta dell'epoca di Cristo. Successivamente l'elaborazione tridimensionale dell'immagine negativa ingrandita della palpebra destra metteva in evidenza la presenza di quattro lettere: Y, C, A, I, nonché un'impronta centrale, un bastone, simile a un punto interrogativo. La scritta poteva essere, verosimilmente, questa: TIBERIOY CAICAPOS, corrispondente all'errore di conio (abbastanza frequente sulle monete dell'epoca) della scritta TIBEPIOY KAI APO (una "C" al posto della "K"). In questo caso si trattava del "dilepton lituus", moneta emessa da Pilato nell'anno XVI del regno di Tiberio, corrispondente al 29-30 d.C.
[24] Gli scienziati parlano di radiazione non-ionizzante di bassa energia, una sorta di scarica elettrica non superiore a qualche frazione di secondo, che ha coinvolto solo le fibrille più superficiali del tessuto, quelle più sporgenti e non quelle adiacenti. Tutta la massa materiale del corpo si trasformò, secondo la formula di Einstein E=Mc2 in una equivalente massa di energia. Da notare che tutti gli animali a sangue caldo emettono radiazioni infrarosse facilmente captabili anche di notte da alcuni serpenti. È comunque notorio il fatto che un corpo, esposto al Sole, può accumulare radiazioni che poi emette a distanza di qualche ora. Il fisiologo russo A. Gurwitsch individuò inoltre i cosiddetti "raggi mitogenetici" (simili alle radiazioni ultraviolette), relativamente alla divisione delle cellule animali e vegetali.
[25] Non pochi scienziati han fatto notare che l'immagine si è formata mentre il sepolcro era completamente buio, in quanto nella Sindone non appaiono tracce di fonti luminose esterne al corpo stesso.
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Si confermava così l'usanza ebraica di ricoprire con monete gli occhi del morto. Strano però che sia stato fatto con monete romane e non ebraiche: sembra che sia stato fatto apposta per indicare gli autori del crimine. La seconda moneta fu trovata dai docenti B. Bollone e N. Balossino. Si tratta di un "lepton" che ha sul verso una coppa rituale con manico ("simpulo") e la scritta di Tiberioy Kaisaros, nonché la sigla finale LIS, che indica la datazione: "L" sta per "anno", "I" indica il valore "dieci" e "S" il valore "sei". Quindi ancora una volta anno XVI dell'imperatore Tiberio, che viene a coincidere con una delle date che gli esegeti scelgono per indicare la morte di Gesù: 7 aprile del 30. Nelle icone e nelle monete bizantine vi sono evidenti tracce sindoniche (p.es. la barba a due punte o la ciocca di capelli a forma di virgola che ricade sulla fronte e che corrisponde, sulla Sindone, a una macchia di sangue). Fra icone, monete e Sindone i punti di convergenza vanno dai 145 ai 190 (a volte si arriva a 250!). Per la medicina legale ne bastano 50-60 per stabilire l'identica origine di due rappresentazioni diverse. Come noto, le prime immagini di Gesù si ispirano a modelli pagani, a motivo del fatto che il cristianesimo perseguitato preferiva usare, per motivi di sicurezza, i simboli della cultura dominante (il volto di Cristo, p. es., somigliava a quello di un giovane Apollo sbarbato). Non esiste, prima del V sec., alcuna rappresentazione del crocifisso sul patibolo, poiché si sapeva che sarebbe stato pericoloso divulgare un'immagine politicizzata del Cristo. Si offriva ai credenti solo la rappresentazione stilizzata della croce, in chiave etica, come simbolo di sofferenza umana e di riscatto morale davanti a Dio. Cristo non doveva apparire come schiavo ribelle, tradito nel momento in cui doveva insorgere contro l'oppressore nazionale, ma come un semplice redentore universale che si era preso su di sé i peccati dell'intera umanità. Non a caso veniva raffigurato come un buon pastore, un taumaturgo, un filosofo che insegna... A partire dalla seconda metà del IV sec. appare sui sarcofagi romani un volto di Gesù con barba e capelli lunghi (il più antico dei ritratti pittorici di questo tipo risale invece al VI sec., presso il monastero del monte Sinai).
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Il modello che ha ispirato gli artisti sarebbe il Mandylion (panno) o Tetradiplon (piegato doppio quattro volte), conservato a Edessa (Urfa), in Siria, nelle steppe dell'Anatolia centrale, durante il primo millennio, fino al 944, poi trasferito a Costantinopoli. Vi sono almeno 15 lineamenti comuni nei ritratti del volto di Cristo che vanno dal VI a tutto il XIV secolo. Il volto del Cristo sindonico appare nei mosaici, sulle tavole di avorio, nelle icone più antiche proprio nel momento in cui il centro dell'impero romano, divenuto cristiano, si sposta a oriente. Naturalmente non è il volto di un crocifisso abbruttito dalle sofferenze subite, ma di un vero e proprio "pantocratore", cioè di un "signore dell'universo", ieratico, padrone di sé e di tutto ciò che lo circonda, severo e sereno nello stesso momento, idealizzato e umano, composto nei movimenti e molto equilibrato nelle fattezze. Il Mandylion non era che la Sindone ripiegata per mostrarne soltanto il volto, il quale veniva definito come "immagine non fatta da mano d'uomo" ("achiropita" o "acheiropoietos", ma si usava anche la parola "theoteuktos"). Il lenzuolo venne visto interamente dispiegato soltanto a Costantinopoli. Il tipo di tessitura del telo, filato a mano in maniera rudimentale, con un intreccio a spina di pesce, corrisponde a quello in uso nel Medioriente (ambiente siriano-palestinese), già nel I sec. La composizione del tessuto, con tracce di cotone (non presente in Europa nel periodo coevo) tra le fibre di lino, ma senza alcuna traccia di fibra di origine animale, appare in consonanza con le leggi di purezza dell'ambiente ebraico. Il lenzuolo è simile a quelli trovati in antiche sepolture egizie, a Pompei e in Siria (patria originaria di questa tessitura). È addirittura identico a un lenzuolo trovato nella fortezza di Masada. Negli anni Settanta il botanico Max Frei Sulzer individuò sulla Sindone granuli di polline di piante presenti in Francia e in Italia, ma anche di molte altre presenti in Palestina, a Costantinopoli e nell'Anatolia, ove si trova Edessa. Spore, funghi e acari simili sono stati trovati in tombe dello stesso periodo, a Gerusalemme, ma anche, successivamente, a Edessa e a Costantinopoli. I pollini del telo provengono da almeno 49 specie di piante, di cui solo 17 tipiche dell'Europa (molte di queste piante non esistono più). Il polline più frequente è identico a quello che si trova presso il lago di Tiberiade e nelle zone limitrofe al Giordano.
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Una particolare varietà di cappero (Zygophillum dumosum) si trova soltanto nell'area di Gerusalemme, nella Giordania occidentale e nel Sinai. Del Vicino Oriente appartengono di sicuro 29 piante, di cui 21 crescono nel deserto o nelle steppe. Tre quarti delle specie riscontrate sulla Sindone crescono in Palestina, tra le quali 13 specie sono molto caratteristiche o esclusive del Negev e della zona del Mar Morto. La Sindone deve essere stata esposta all'aria libera pure in Turchia, poiché 20 delle specie riscontrate sono abbondanti in Anatolia (Urfa, ecc.) e quattro nei dintorni di Costantinopoli, e mancano completamente nell’Europa Centrale e Occidentale. Frei disse anche che il telo non fu esposto ai fedeli né ad Atene né a Cipro, dove infatti si pensa sia stato tenuto nascosto dai crociati. Invece lo fu di sicuro in Francia e in Italia. L'analisi chimica spettrografica dell'aragonite trovata nel tessuto indica ch'esso è stato in diretto contatto con una cava o tomba calcarea di Gerusalemme.
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