Le dodici tribù di Israele
Parzialmente tratto da Wikipedia
Le dodici tribù di Israele (anche dette figli di Israele, popolo di Israele e Israeliti) sono i dodici gruppi, legati da vincoli di parentela nei quali, secondo la tradizione biblica, si suddivideva il popolo ebraico. Ciascuna delle tribù si riteneva discendere da uno dei dodici figli di Giacobbe (chiamato anche Israele), e ne portava il nome. Sempre secondo la tradizione, quando il popolo d'Israele scese in esilio in Egitto era in numero di 70 individui analogamente alle 70 Nazioni del mondo; esso è considerato possesso particolare di Dio e lo stesso capo dei Profeti Mosè poté scorgerne la completezza solo quando contò 600.000 individui maschi, dai 20 ai 60 anni, corrispondenti alle 600.000 lettere ebraiche della Torah
Ciascuna tribù del popolo ebraico attorno all'Arca dell'Alleanza portava una bandiera o drappo di seta, definiti in ebraico degalim, con il simbolo rappresentante.
Le dodici tribù di Israele (anche dette figli di Israele, popolo di Israele e Israeliti) sono i dodici gruppi, legati da vincoli di parentela nei quali, secondo la tradizione biblica, si suddivideva il popolo ebraico. Ciascuna delle tribù si riteneva discendere da uno dei dodici figli di Giacobbe (chiamato anche Israele), e ne portava il nome. Sempre secondo la tradizione, quando il popolo d'Israele scese in esilio in Egitto era in numero di 70 individui analogamente alle 70 Nazioni del mondo; esso è considerato possesso particolare di Dio e lo stesso capo dei Profeti Mosè poté scorgerne la completezza solo quando contò 600.000 individui maschi, dai 20 ai 60 anni, corrispondenti alle 600.000 lettere ebraiche della Torah
Ciascuna tribù del popolo ebraico attorno all'Arca dell'Alleanza portava una bandiera o drappo di seta, definiti in ebraico degalim, con il simbolo rappresentante.
Origine dei nomi
Nei capitoli 29 e 30 della Genesi si racconta il significato dei vari nomi, in modo da rispecchiare lo scontro tragicomico tra le due mogli: Lia, più vecchia e più feconda, e sua sorella Rachele, la più amata, ma sterile.
(N.B. le parole di colore diverso sono linkate a pagine dedicate)
Ruben, il primogenito di Giacobbe, il cui nome significa guarda: un figlio (maschio)!. Era figlio di Lia.
Simeone, secondogenito, figlio di Lia. Il suo nome significa YHWH mi ha udito.
Levi, terzo figlio di Lia. Mi si affezionerà significa, sperando Lia, in un avvicinamento di Giacobbe. Ma lui amava di più Rachele, sua sorella.
Giuda, quarto figlio di Lia, chiamato "giovane leone". Il suo nome significa loderò YHWH. Sua madre quando lo partorì disse: "Questa volta loderò YHWH". Per questo lo chiamò Giuda.
Dan, primo figlio di Bila schiava di Rachele, che, sostituendosi alla padrona sterile, divenne una moglie secondaria di Giacobbe. Per questa ragione Rachele adottò subito il bambino e gli mise nome Dan, dicendo: "YHWH mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce, dandomi un figlio.
Neftali, altro figlio di Bila, frutto della rivalità tra sorelle. Quando la madre lo partorì Rachele, esultante per aver avuto un secondo figlio tramite la sua schiava, esclamò: “Ho sostenuto lotte tremende e ho vinto!”
Gad, figlio di Zilpa, ancella di Lia che quando lo partorì gridò: "per fortuna!".
Aser, secondo figlio di Zilpa schiava di Lia: quando nacque Lia gli mise nome Aser che significa felicità, perché disse: "Così mi diranno felice!".
Issacar, concepito da Lia, in un giorno in cui Giacobbe avrebbe dovuto appartarsi con Rachele. Quando lo partorì disse: "Dio mi ha dato il mio salario, per avere io dato la mia schiava a mio marito", perciò lo chiamò Issacar, che significa: colui che è acquistato a mercede.
Zabulon, ancora Lia partorisce e dice: "Dio mi ha fatto un bel regalo: questa volta mio marito mi preferirà, perché gli ho partorito sei figli" e chiamò il figlio Zabulon, che significa: esaltare, onore, abitazione elevata. Zabulon fu l'ultimo figlio maschio partorito da Lia, che dopo di lui partorì Dina e poi cessò di avere figli.
Giuseppe, Dio ha tolto il mio disonore, disse Rachele alla nascita di questo figlio, poiché era stata sterile essa esclamò: " YHWH mi ha tolto il mio disonore", e lo chiamò Giuseppe, dicendo: " Il Signore mi aggiunga un altro figlio!".
Beniamino, è il secondo e ultimo figlio di Rachele. La madre lo partorì durante il viaggio da Bethel ad Efrata (Bethlehem), in punto di morte per le doglie del parto, chiamò il neonato Ben-'ōnī = figlio del mio dolore; ma il padre lo cambiò in quello di Binyāmīn (Beniamino), che significa figlio della mano destra, cioè del braccio della fortezza, convertendo il triste ricordo in lieto augurio.
A questa prima struttura tribale se ne succedettero altre. I cambiamenti vengono raccontati sotto varie forme, come lo stupro di Dina da parte dei Sichemiti, che può star a significare lo sterminio di un'antica tribù matriarcale che aveva Dina per eponimo.
Anche Simeone e Giuseppe scompaiono, mentre se ne aggiungono altre due Èfraim e Manasse, citati come figli di Giuseppe, ma adottati da Giacobbe. Queste due tribù furono a capo del Regno di Israele, nato nella parte nord del Regno di Davide dopo la morte di Salomone.
Èfraim, secondo figlio di Giuseppe, fu il padre, a dargli nome Èfraim "perché, come egli disse, "YHWH mi ha reso fecondo nel paese della mia sventura"
Manasse, così Giuseppe chiamò il primo dei suoi due figli nati in Egitto da Asenat sua moglie, perché egli disse: “YHWH mi ha fatto dimenticare tutto il mio affanno e tutta la casa di mio padre”. I discendenti di Manasse furono così numerosi che la tribù fu divisa in due.
Queste due tribù furono a capo del Regno di Israele, o meglio, la parte nord nata dalla secessione del Regno di Davide.
Geografia dell'antico Israele
Il modo migliore per descrivere la terra della Bibbia è forse considerarla composta di sci strisce parallele che corrono da nord a sud. La prima striscia e costituita dalla pianura costiera. Comincia 20 km a nord di Akko (la biblica Acco). all'estremità settentrionale della baia di Haifa. Inizialmente è larga circa 5 km, ma avvicinandosi alla baia di Haifa diventa più ampia e sfiora i 13 km di ampiezza. La catena del Carmelo la taglia completamente all'estremità meridionale della baia di Haifa; la pianura riprende a sud del monte Carmelo, dove per 30 km è larga appena 4 km o meno. A sud del nahal (torrente) Tanninim, comincia ad allargarsi, arrivando a più di 20 km di ampiezza dove sbocca la valle di Aialon, lungo la quale si può accedere alla regione montuosa centrale. A sud di questo punto, il margine orientale della pianura si confonde con la seconda striscia (che in realtà è solo una mezza striscia), costituita dalla Sefela, o bassopiano. A sud di Gaza, la pianura costiera si perde nel Negheb.
In tempi biblici la linea costiera della baia di Haifa era più a est della attuale; all'estremità settentrionale e meridionale la baia era invasa da paludi. A sud del Carmelo, la costa era caratterizzata da sabbie o da paludi, ma era abitabile, soprattutto alla foce dei fiumi e dei torrenti invernali. A sud del nahal Tanninim si stendevano boschi decidui di querce e carrubi, con insediamenti sul margine orientale della pianura, ai piedi dei monti centrali.
La seconda striscia (o mezza striscia), la Sefela, è composta di una serie di colline tondeggianti e di larghe valli che, oltre a fare da transizione fra la pianura costiera e la regione montuosa centrale, offrono parecchi accessi verso est. Le valli che corrono in direzione nord-sud ospitano strade importanti e dividono la Sefela in un settore occidentale e in uno orientale.
La terza striscia è costituita dalla regione montuosa centrale, che comincia a nord nell'alta Galilea. Il massiccio centrale presenta monti che giungono ad altezze superiori ai 1000 m, con complessi affioramenti sul versante orientale. I monti non offrono passaggi facili in nessuna direzione; gli itinerari antichi li evitavano. Nella bassa Galilea i monti centrali sono interrotti da parecchie valli molto larghe, orientate grosso modo est-ovest, che consentono di passare dalla pianura costiera alla regione del Mare di Galilea.
1 monti centrali sono spezzati dalla valle triangolare di Izreèl, ampia pianura che corre da nord-ovest a sud-est collegando la costa con la valle del Giordano; nel punto massimo e larga 25 km (da nord a sud). A sud della valle di Izreèl, le colline cominciano a salire di quota, ancora interrotte da larghe valli, fino al nucleo centrale dei monti della Samaria, con altezze sui 900 m. A sud di Nabulus (Nablus) una valle lunga e stretta orientata all'incirca da nord a sud permette di addentrarsi ulteriormente nella regione di Betel. Qui le valli sono poche, e la strada principale segue in percorso molto tortuoso. Il tratto successivo della catena centrale è costituito dalla sella di Gerusalemme, che presenta a nord un piccolo altopiano e a est e a ovest valli che facilitano le comunicazioni in queste direzioni. A sud di Betlemme, i monti salgono ancora di quota e superano i 1000 metri, poi cominciano a digradare verso il Negheb.
La quarta striscia è una valle tettonica, formata da una faglia che si estende sino in Africa orientale. Il Mare di Galilea è già 210 metri sotto il livello del mare.
Da qui la valle scende ancora sino ai meno 400 metri della superficie del Mar Morto; il fondo di questo mare, nel punto più profondo, è 400 metri più in basso. Le condizioni climatiche nella valle tettonica sono da semiaride a desertiche, tranne che nelle immediate vicinanze del Giordano.
La quinta striscia è costituita dai monti che chiudono a est la valle tettonica. A nord-est del Mare di Galilea questi rilievi giungono a 1100 metri, formando poi un altopiano che si estende fino a Damasco. A sud del Mare di Galilea troviamo una regione montuosa che ricorda la catena centrale a occidente del Giordano. Ancora più a sud si stendono elevati altopiani sugli 800-900 m. Caratteristica dei monti orientali sono le numerose e profonde valli scavate dai fiumi, che li segmentano da est a ovest. Ancora più a est, la quinta striscia sfuma nella sesta, il deserto siriano.
Questa breve descrizione della terra della Bibbia offre un quadro di grandi contrasti. Tutte le "strisce" hanno le loro particolari caratteristiche; attraversandole da ovest a est si incontrano notevoli differenze di quota. La pianura costiera è in gran parte al livello del mare, poi si sale fino ai 1000 metri della catena centrale, in maniera più graduale a sud grazie alla Sefela. Dai 1000 metri si precipita sul fondo della valle tettonica, che si trova, nel punto più basso, 400 metri sotto il livello del mare; subito dopo i monti orientali risalgono a 1100 metri o più, per poi
perdersi nel deserto. Fra le altre notevoli irregolarità ricordiamo la catena del Carmelo, che taglia la pianura costiera in due, e la valle di Izreel, che interrompe la dorsale montuosa centrale.
Le variazioni di temperatura sono considerevoli; sul versante occidentale del Giordano lo sbalzo più impressionante è fra i monti della Giudea e la sponda del Mar Morto. Non stupisce che in tutti i periodi
documentati chi era abbastanza potente e ricco da potersi permettere una residenza estiva e una residenza invernale passasse gli inverni vicino al mar Morto e le estati sui monti centrali. Sui monti orientali della Transgiordania il clima cambia di nuovo con estati ventilale e inverni più freddi che sulla Catena occidentale.
Inoltre, anche all'interno delle singole strisce possono esservi variazioni che modificano profondamente le possibilità dì comunicazione o di insediamento. Si veda per esempio il territorio montuoso centrale.
Le differenze più marcate sono tra la sella di Gerusalemme, i monti di Betel e i monti della Samaria: andando verso nord si passa da un piccolo altopiano solcato da una strada dritta a una zona dove sembra possibile avanzare solo con interminabili serpeggiamenti sui fianchi delle colline, infine a una regione in cui improvvisamente, tra i monti tondeggianti, si aprono spettacolari vallette.
Il paesaggio biblico
Chi visita oggi Israele e la sponda occidentale del Giordano si accorgerà subito che in alcune zone, negli ultimi 60 anni, sono avvenuti enormi cambiamenti nel paesaggio. Questi cambiamenti sono evidentissimi nella pianura costiera, nella regione immediatamente a sud del Mare di Galilea e nei dintorni di Gerusalemme. Quando però si allontanano da queste zone dove città, industrie e coltivazioni intensive hanno di recente preso il sopravvento, i visitatori vedono ancora la terra così com'era ai tempi della Bibbia? Seguendo le strade tortuose che attraversano i monti di Betel, o addentrandosi nei monti della Giudea a sud di Betlemme, o nelle colline dell'alta Galilea, potranno dire di avere davanti ai loro occhi paesaggi biblici?
Prima di tutto bisogna precisare che il periodo biblico durò molto a lungo: 1300 anni dall'insediamento degli Israeliti nella terra di Canaan sino al termine del primo secolo dell'era cristiana; ancora di più se prendiamo per buona la tradizione storica dei Patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe), secondo la quale questi vissero tra il 1750 e il 1500 a.C. Su un arco di tempo cosi lungo, soprattutto con il processo di urbanizzazione avviato durame i regni di Davide e di Salomone, non possono non esserci stati cambiamenti nel paesaggio. Tuttavia, è generalmente accettato che dall'inizio del periodo biblico (fissato per comodità nel 1200 a.C.) la terra non sia cambiata gran che dove oggi vediamo colline sassose, o terrazzate a scopo agricolo, o coperte di arbusti e macchia.
Che invece la terra della Bibbia non abbia oggi l'aspetto che aveva nell'antichità (diciamo nel 4000 a.C.) è ormai scontato. In quei tempi le colline a ovest del Giordano, da nord fino a sud di Ebron erano coperte di foreste di querce sempreverdi e relative piante associate, mentre lungo la pianura costiera e in parte della catena del Carmelo cresceva la quercia decidua (quercia del Tabor) con le relative piante associate. Nessuno nutre dubbi che la scomparsa di queste foreste sia la causa prima della cronica erosione del suolo di cui siamo testimoni ancora oggi (dove non e stata corretta in anni recenti).
Durante la stagione delle piogge, che va più o meno da Ottobre ad aprile, sono frequenti gli acquazzoni violenti. Dove crescono alberi sempreverdi, la forza della pioggia viene spezzata, e le radici degli alberi e del sottobosco trattengono l'umidita. Quando gli alberi scompaiono, nulla impedisce al suolo delle colline di essere dilavato. Dai tempi biblici non vi sono stati cambiamenti significativi di clima; si e solo accentuata l'erosione favorita dalla scomparsa degli alberi.
Su questo tutti sono d'accordo, ma la dispute si accendono quando bisogna stabilire fino a che punto gli alberi fossero scomparsi e il suolo si fosse eroso all'inizio del periodo biblico (diciamo nel 1200 a.C). Prima di cercare di dare una risposta a questa domanda (in realtà si può solo tentare di indovinare tenendo conto dei dati a disposizione), sarà utile comprenderne l'importanza. II problema è molto delicato se si prendono in considerazione l'insediamento in Canaan e la struttura della società israelita di quel periodo. In termini un po' semplicistici, si può dire che insediarsi in una terra in cui vaste erosioni facilitavano l'accesso alle zone montuose lontane dalle potenti città-stato era più facile che in una terra ancora in gran parte coperta da boschi e foreste dove l'insediamento avrebbe richiesto incendi e diboscamenti sistematici. Inoltre, un insediamento che avesse avuto bisogno di lavoro comune organizzato avrebbe sicuramente richiesto una struttura sociale più complessa di quella di un gruppo di pastori che, pascolando le sue greggi, avesse occupato zone montuose "vuote".
Molti studi di questo secolo sull'insediamento degli Israeliti partono dal presupposto che i coloni fossero soprattutto pastori (con un'organizzazione sociale in cui il potere era spartito fra i capifamiglia), che erravano in una terra dall'aspetto fondamentalmente uguale a quello di oggi (nei luoghi in cui il paesaggio non ha subito la modernizzazione del nostro secolo).
Ma è probabile che il quadro fosse completamente diverso. I coloni erano, o dovevano diventare, vista la morfologia del terreno, agricoltori che cercavano di insediarsi in zone boscose, con un'organizzazione sociale che assegnava a singoli individui un notevole potere di pianificazione e impostazione del lavoro della comunità. Nel momento in cui stiamo scrivendo, i problemi relativi all'ecologia, ai metodi di produzione del cibo, all'organizzazione sociale, alle dimensioni della popolazione e alla distribuzione degli insediamenti all'inizio dell'Età del Ferro (dal 1200 a.C. in poi) sono oggetto di intense ricerche e di dibattiti, e hanno tutta l'aria di diventare nei prossimi anni un argomento sempre più importante degli studi biblici.
Chi visita oggi Israele e la sponda occidentale del Giordano si accorgerà subito che in alcune zone, negli ultimi 60 anni, sono avvenuti enormi cambiamenti nel paesaggio. Questi cambiamenti sono evidentissimi nella pianura costiera, nella regione immediatamente a sud del Mare di Galilea e nei dintorni di Gerusalemme. Quando però si allontanano da queste zone dove città, industrie e coltivazioni intensive hanno di recente preso il sopravvento, i visitatori vedono ancora la terra così com'era ai tempi della Bibbia? Seguendo le strade tortuose che attraversano i monti di Betel, o addentrandosi nei monti della Giudea a sud di Betlemme, o nelle colline dell'alta Galilea, potranno dire di avere davanti ai loro occhi paesaggi biblici?
Prima di tutto bisogna precisare che il periodo biblico durò molto a lungo: 1300 anni dall'insediamento degli Israeliti nella terra di Canaan sino al termine del primo secolo dell'era cristiana; ancora di più se prendiamo per buona la tradizione storica dei Patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe), secondo la quale questi vissero tra il 1750 e il 1500 a.C. Su un arco di tempo cosi lungo, soprattutto con il processo di urbanizzazione avviato durame i regni di Davide e di Salomone, non possono non esserci stati cambiamenti nel paesaggio. Tuttavia, è generalmente accettato che dall'inizio del periodo biblico (fissato per comodità nel 1200 a.C.) la terra non sia cambiata gran che dove oggi vediamo colline sassose, o terrazzate a scopo agricolo, o coperte di arbusti e macchia.
Che invece la terra della Bibbia non abbia oggi l'aspetto che aveva nell'antichità (diciamo nel 4000 a.C.) è ormai scontato. In quei tempi le colline a ovest del Giordano, da nord fino a sud di Ebron erano coperte di foreste di querce sempreverdi e relative piante associate, mentre lungo la pianura costiera e in parte della catena del Carmelo cresceva la quercia decidua (quercia del Tabor) con le relative piante associate. Nessuno nutre dubbi che la scomparsa di queste foreste sia la causa prima della cronica erosione del suolo di cui siamo testimoni ancora oggi (dove non e stata corretta in anni recenti).
Durante la stagione delle piogge, che va più o meno da Ottobre ad aprile, sono frequenti gli acquazzoni violenti. Dove crescono alberi sempreverdi, la forza della pioggia viene spezzata, e le radici degli alberi e del sottobosco trattengono l'umidita. Quando gli alberi scompaiono, nulla impedisce al suolo delle colline di essere dilavato. Dai tempi biblici non vi sono stati cambiamenti significativi di clima; si e solo accentuata l'erosione favorita dalla scomparsa degli alberi.
Su questo tutti sono d'accordo, ma la dispute si accendono quando bisogna stabilire fino a che punto gli alberi fossero scomparsi e il suolo si fosse eroso all'inizio del periodo biblico (diciamo nel 1200 a.C). Prima di cercare di dare una risposta a questa domanda (in realtà si può solo tentare di indovinare tenendo conto dei dati a disposizione), sarà utile comprenderne l'importanza. II problema è molto delicato se si prendono in considerazione l'insediamento in Canaan e la struttura della società israelita di quel periodo. In termini un po' semplicistici, si può dire che insediarsi in una terra in cui vaste erosioni facilitavano l'accesso alle zone montuose lontane dalle potenti città-stato era più facile che in una terra ancora in gran parte coperta da boschi e foreste dove l'insediamento avrebbe richiesto incendi e diboscamenti sistematici. Inoltre, un insediamento che avesse avuto bisogno di lavoro comune organizzato avrebbe sicuramente richiesto una struttura sociale più complessa di quella di un gruppo di pastori che, pascolando le sue greggi, avesse occupato zone montuose "vuote".
Molti studi di questo secolo sull'insediamento degli Israeliti partono dal presupposto che i coloni fossero soprattutto pastori (con un'organizzazione sociale in cui il potere era spartito fra i capifamiglia), che erravano in una terra dall'aspetto fondamentalmente uguale a quello di oggi (nei luoghi in cui il paesaggio non ha subito la modernizzazione del nostro secolo).
Ma è probabile che il quadro fosse completamente diverso. I coloni erano, o dovevano diventare, vista la morfologia del terreno, agricoltori che cercavano di insediarsi in zone boscose, con un'organizzazione sociale che assegnava a singoli individui un notevole potere di pianificazione e impostazione del lavoro della comunità. Nel momento in cui stiamo scrivendo, i problemi relativi all'ecologia, ai metodi di produzione del cibo, all'organizzazione sociale, alle dimensioni della popolazione e alla distribuzione degli insediamenti all'inizio dell'Età del Ferro (dal 1200 a.C. in poi) sono oggetto di intense ricerche e di dibattiti, e hanno tutta l'aria di diventare nei prossimi anni un argomento sempre più importante degli studi biblici.
Le benedizioni di Giacobbe ai suoi dodici figli nel cap. 49 di Genesi e le posizioni delle tribù nell'accampamento.
Ho trovato questo interessante articolo sul Sito Ufficiale dell'A.L.S.S.A., lo propongo privo di note, ma con aggiunta dei collegamenti ai passi biblici a cui fa riferimento, in modo che chi volesse può aprire il passo in questione. In fondo all'articolo è inserito il link diretto al Pdf da cui è stato tratto e dove è possibile leggerlo con le note.
Uno zodiaco dell’Era del Toro nel libro della Genesi
Alberto Peano Cavasola
Estratto
Le benedizioni di Giacobbe ai suoi dodici figli nel cap. 49 di Genesi seguono ordinatamente le caratteristiche delle costellazioni dello zodiaco con l’obbiettivo di togliervi le divinità mesopotamiche e ricondurlo a rappresentazione iconografica di simboli dei patriarchi o del destino della loro tribù. Non si tratta, però dello zodiaco ellenistico, ma di uno più antico, il cui primo segno è il Toro.
1. Introduzione
Le benedizioni di Giacobbe sono un testo misterioso, la cui traduzione solleva numerosi problemi filologici e che stimolò ripetutamente l’impegno ermeneutico dei Padri della Chiesa, fra cui Ippolito di Roma e Rufino di Concordia. Nonostante l’impegno, le difficoltà restarono e San Girolamo dovette concludere: “non ignoro plura in benedictionibus patriarcharum esse mysteria”. Anche oggi il testo è ritenuto “visibilmente corrotto in molti punti e spesso difficilmente comprensibile”.
Nel XVII secolo Athanasius Kircher tentò per primo di decodificare questo testo come una descrizione zodiacale, appoggiandosi anche su un abbozzo fantasioso di filologia egizia. Le sue ipotesi, sviluppate esclusivamente con riferimento ai segni zodiacali ellenistici, furono riprese da altri autori e sviluppate soprattutto da William Drummond nel 1811. La tesi, però, sembra essere caduta presto in discredito, tanto che non viene neppure menzionata nel classico testo di Maunder, un rinomato astronomo britannico degli inizi del Novecento. L’idea, tuttavia, ha continuato a solleticare gli studiosi, sia pure in forma dubitativa.
Al di là della maggiore o minore credibilità delle argomentazioni con cui la tesi era stata portata avanti dai diversi autori, la principale difficoltà era che l’interpretazione zodiacale sembrava associare al testo biblico un virtuosismo letterario fine a se stesso. Nel proporre, quindi, un’interpretazione completamente diversa, ma sempre di tipo zodiacale, è utile sottolineare che:
1) La proposizione di un diverso simbolismo zodiacale è parte significativa di un tema fondamentale del libro della Genesi: la revisione in chiave monoteistica di dati tradizionali della cultura mesopotamica (Creazione, Diluvio, ecc.). Secondo la maggior parte dei biblisti, per esempio, il primo capitolo della Genesi venne scritto durante l’esilio babilonese per controbattere il racconto della creazione da parte di Marduk, l’Enuma Elish, che veniva recitato pubblicamente a Babilonia durante la celebrazione del capodanno. Lo zodiaco era un altro dato della cultura babilonese inaccettabile sia per gli dèi che vi comparivano sia per il suo utilizzo astrologico.
2) Le “benedizioni di Giacobbe”, inoltre, si ricollegano al primo capitolo della Genesi per due temi importanti. Anzitutto la demitizzazione dello zodiaco corrisponde alla demitizzazione del Sole e della Luna, dei quali il racconto della Creazione chiarisce la natura creaturale (semplici lampade poste da YHWH per illuminare la Terra, Gen 1, 14-16) e non divina (gli dèi Shamash e Sin, adorati in Mesopotamia). La benedizione, poi, del nascente popolo eletto corrisponde a quella del Creato (Gen 1, 31). Questa corrispondenza è creata artificialmente dal versetto 49, 28 che definisce “benedizioni” un testo di natura sostanzialmente diversa. Come rilevato dagli esegeti solo per Giuseppe si ha una benedizione vera e propria. Le due pericopi, quindi, formano una “inclusione” astro-teologica che delimita e contribuisce a definire il significato complessivo del libro della Genesi.
3) La narrazione zodiacale fornisce il contesto e il linguaggio per spiegare la legittimità dei due regni israelitici, un tema sottinteso da altri episodi oscuri della storia dei patriarchi (Ruben e Bila, Giuda e Tamar, ecc.).
Occorre, infine, osservare che questo capitolo di Genesi segna l’avvio o almeno un primo importante snodo di un rapporto pluri-millenario fra il giudaismo e la simbologia associata allo zodiaco prima dalla civiltà mesopotamica, poi da quella ellenistica e infine da quella bizantina. Alcuni momenti di questo rapporto sono accennati nel seguito.
2. Costellazioni e tribù nel Pentateuco.
La similitudine fra i dodici figli di Giacobbe e le costellazioni dello zodiaco compare più o meno esplicitamente nelle opere di Giuseppe Flavio, quando egli commenta le norme di culto esodiche. Nelle Antichità Giudaiche, infatti, Giuseppe Flavio spiega che le dodici gemme del pettorale del sommo sacerdote, che corrispondono ai dodici figli di Giacobbe (Esodo 28, 21), sono anche in corrispondenza con le dodici costellazioni dello zodiaco e con i dodici mesi dell’anno. Nella Guerra Giudaica, poi, Giuseppe Flavio pone le costellazioni dello zodiaco anche in corrispondenza con i dodici pani offerti nel Santo del Tempio: una corrispondenza che può sembrare forzata, dato che Giuseppe Flavio non ne fornisce alcun chiarimento e l’unico collegamento sembrerebbe essere che lo zodiaco può essere simbolo anche del ciclo delle stagioni, mentre le messi e i pani ne sono il frutto.
Il pensiero, però, corre a Genesi, in cui il sogno di dodici covoni di grano precede quello di dodici stelle: due simboli equivalenti perché entrambi rappresentano i patriarchi (Gen 37, 5-11). Analogamente i pani (focacce rotonde del peso di circa 5 kg ognuna), che sono il prodotto finale di molti chicchi di grano, e le costellazioni, che sono costituite da molte stelle, sono in corrispondenza fra loro solo perché entrambi rappresentano le tribù di Israele, discese dai patriarchi. L’associazione fra tribù e costellazioni non è apertamente dichiarata in Genesi 49, ma risulta riconoscibile perché parte di un quadro simbolico introdotto nei precedenti capitoli di Genesi, sin da quando Dio promette che la discendenza di Abramo sarà numerosa come le stelle del cielo (Gen 15, 5). Successivamente ognuno dei dodici figli di Giacobbe è rappresentato da una stella (Gen 37, 9-10) ed è perciò naturale raggruppare le stelle dei loro discendenti in dodici costellazioni. L’assegnazione, quindi, di una costellazione ad ogni tribù in Genesi 49 è sviluppo coerente di questo stesso linguaggio simbolico; uno sviluppo temporalmente maturo dato che dopo poche generazioni Mosè poté constatare che la promessa ad Abramo si era già avverata (Dt 1, 10).
La scelta delle costellazioni dello zodiaco per le tribù israelite, lasciando le altre per i popoli pagani, si presenta naturale non tanto per la coincidenza col numero dei patriarchi, quanto perché sono quelle percorse dal Sole nel suo ciclo annuale. La scelta, quindi, intende suggerire che Israele è il popolo eletto. Questa interpretazione è confermata da un targum: “Il Santo, sia Egli benedetto, gli disse [ad Abramo]: proprio come lo zodiaco (mazalot) mi circonda e la mia gloria è al centro, così i tuoi discendenti si moltiplicheranno e si accamperanno sotto molte insegne con la mia shekinà nel centro”.
Nel primo membro di questa similitudine troviamo la metafora solare della gloria di Dio (kabôd), la cui caratteristica essenziale è lo splendore, lo sfolgoramento. Occorre, quindi, richiamare alla mente gli antichi zodiaci musivi, argomento sviluppato nel seguito, al cui centro si trova appunto un Sol invictus alla guida del carro solare; figura interpretata simbolicamente talvolta come Cristo nelle basiliche cristiane (come nel caso della necropoli vaticana) e talvolta come Metatron nelle sinagoghe.
Al secondo membro della similitudine, invece, abbiamo la dimora esodica (mishkan), sede della presenza divina (shekînah) e centro dell’accampamento degli Israeliti nel Sinai (Numeri 2). La similitudine mette di fatto in corrispondenza segni zodiacali e tribù, ma con la finezza teologica di evitare di collocare i patriarchi in cielo. L’attribuzione, infatti, di una costellazione dello zodiaco a ogni tribù di Israele non è solo un'analogia per mettere in rilievo la vicinanza di Dio a Israele: mira soprattutto a togliere dal cielo le divinità mesopotamiche, che lo affollavano per il sovrapporsi di diverse tradizioni mitologiche. Agli dèi tradizionali, come Ea (=Aquario), Ištar (=Vergine), Pabilsaĝ (=Sagittario), Išḫara (=Scorpione), ecc. si aggiunsero i demoni, ad esempio quelli sconfitti da Marduk nella saga babilonese della creazione, l'Enuma elish. Essi sono proprio dodici e Marduk: “ne ha fatto delle immagini e le ha poste all'ingresso dell’Abisso, un segno da non dimenticare mai” (tavoletta V,75-76). La sede, infatti, degli dèi era nell'emisfero boreale della volta celeste, fascia zodiacale compresa (salvo trasferimenti temporanei o definitivi nell'oltretomba, posto nell'emisfero australe). Subito attorno alla fascia zodiacale i Babilonesi collocarono costellazioni che rappresentavano i demoni. Immagini apotropaiche degli stessi demoni venivano collocate anche all'esterno di templi e palazzi mesopotamici.
3. Lo zodiaco di Giacobbe
Nel Genesi 49 di Genesi, Giacobbe, prossimo alla morte, raduna i suoi dodici figli per “annunziargli quello che accadrà loro nei tempi futuri”. Le profezie relative alle dodici tribù si susseguono con alcune variazioni d’ordine: piccole rispetto alla sequenza di nascita di ogni figlio (data nei capitoli 29, 30 e 35 di Genesi) e maggiori rispetto a quelle di Genesi 35, 23-26 e Genesi 46, 8-27, in cui sono elencate le madri seguite dai rispettivi figli; questo dettaglio costituisce un’arbitrarietà, che sorprese anche i Padri della Chiesa. Vengono elencati per primi tutti i figli di Lia (compresi i due nati in un secondo tempo), ma anteponendo Zabulon a Issacar. Seguono i quattro figli delle due schiave (che nacquero tutti prima di Issacar e Zabulon), ma con i figli di Zilpa in mezzo ai due di Bila e alterando così l’ordine di nascita di Neftali, che scende dal secondo al quarto posto. Restano ultimi i due figli di Rachele in accordo con l’ordine di nascita, ma non con alcun altro ordinamento biblico (Es.: Genesi 35, 23-26; Genesi 46, 8-27; Esodo 1, 2-5; 1 Cronache 2, 1-2, Deuteronomio 27, 12-13).
Queste variazioni segnalano la presenza di un criterio di ordinamento non dichiarato, che viene qui identificato nella necessità di rispettare l’ordine dei segni zodiacali. Le piccole modifiche nell'ordine dei patriarchi sono quelle indispensabili per stabilire un nesso fra vicende della vita di ogni patriarca o della storia della sua tribù e le caratteristiche del segno zodiacale a cui vien fatto corrispondere. Questo fatto non venne notato nei precedenti tentativi di stabilire una corrispondenza fra patriarchi e costellazioni, per cui gli accoppiamenti furono stabiliti in modo libero e spesso discorde fra le varie proposte, avvantaggiandosi di questo grado di arbitrarietà per ipotizzare corrispondenze più facilmente giustificabili.
Pur rispettando la sequenza dello zodiaco, però, occorre prendere come primo segno non l’Ariete ma il Toro, la costellazione nella quale si verificava il capodanno (= equinozio di primavera) nell'antichità più remota. A causa della precessione degli equinozi, il capodanno si spostò nella costellazione dell’Ariete verso la fine del III millennio a.C., ma la sequenza zodiacale originaria restò in uso, soprattutto in ambito astronomico. Essa, per esempio, compare nel frammento di Qumran 4Q318, che contiene una descrizione del percorso della Luna nella volta celeste a partire dall'inizio dell’anno (il cosiddetto “selendromion”). Dal testo si deduce che il capodanno (1° giorno del mese di Nisan) era ancora assegnato al Toro circa duemila anni dopo il termine di quell'era zodiacale. La questione ha sollevato un vivace dibattito.
I testi biblici, utilizzati per riportare e commentare le “profezie”, sono presentati nella traduzione CEI 2008, salvo diversa indicazione.
Ruben: il Toro
Il primogenito di Giacobbe, Ruben, viene ricordato dal padre solo per la sua esuberanza sessuale, una caratteristica che lo fa corrispondere al Toro. Dato che essa si è rivelata fuori controllo (Genesi 35, 22), gli viene preannunciata la perdita della preminenza sui fratelli:
3 Ruben, tu sei il mio primogenito,
il mio vigore e la primizia della mia virilità,
esuberante in fierezza ed esuberante in forza!
4 Bollente come l’acqua, tu non avrai preminenza,
perché sei salito sul talamo di tuo padre,
hai profanato così il mio giaciglio.
Benché l’assegnazione della costellazione del Toro a Ruben non sia esplicita, essa trova conferma nel targum dello pseudo-Gionata al secondo capitolo del Libro dei Numeri. Esso riporta una tradizione, secondo cui la tribù di Ruben avrebbe avuto inizialmente come emblema il Toro, ma Mosè ne avrebbe vietato l’utilizzo dopo la vicenda sinaitica del vitello d’oro. Da un lato, quindi, viene confermata l’interpretazione qui avanzata per Genesi 49, 3-4, dall'altro le motivazioni del cambiamento sono state modificate, mettendo in secondo piano la colpa di Ruben: un indirizzo comune ad altra letteratura rabbinica, che interpreta allegoricamente il racconto dell’incesto di Ruben.
Nel seguito Giacobbe disapprova anche Levi e Simone, perciò l’onore e il frutto della preminenza dovrebbero passare per anzianità al quarto figlio, Giuda, da cui, infatti, trae origine la dinastia davidica. Genesi, però, sviluppa anche il tema della predilezione di Giacobbe per Rachele e per i suoi figli: Beniamino e soprattutto Giuseppe, a cui sembrerebbe che venga trasferita la primogenitura:
26 Le benedizioni di tuo padre sono superiori
alle benedizioni dei monti antichi,
alle attrattive dei colli perenni.
Vengano sul capo di Giuseppe
e sulla testa del principe tra i suoi fratelli!
L’importanza di questa predilezione sta nella sua natura eziologica di “profezia” storicopolitica: dalla tribù di Beniamino, infatti, provenne Saul, il primo re d’Israele e Giuda. Alla tribù di Efraim, il figlio di Giuseppe prediletto da Giacobbe (Genesi 48, 17-19), appartenne (oltre a Giosuè) Geroboamo, il fondatore del regno secessionista d’Israele ben più ampio del regno di Giuda (1 Re 12, 20).
La riabilitazione talmudica di Ruben, che sembrerebbe rimettere in discussione la perdita della primogenitura e trovare conferma in Esodo 6, 14 e Numeri 26, 5, è verosimilmente originata sia dall'imbarazzo di attribuire un incesto a un proprio antenato sia dalla pessima fine della dinastia efraimita. Secondo il primo libro delle Cronache, invece, il trasferimento della primogenitura a Giuseppe è valido, benché non fosse stato ufficializzato (1 Cronache 5, 1); una tesi che riflette solo parzialmente la sottigliezza con cui il tema è trattato nella Genesi.
La mancata registrazione, affermata dal libro delle Cronache, implica la mancanza di un erede unico e quindi la legittimità di entrambi i regni israeliti; la validità del trasferimento sottolinea che il regno del Nord può legittimamente fregiarsi del nome di “regno di Israele”, perpetuando il nome di Giacobbe in accordo con la benedizione a Efraim e Manasse (Genesi 48, 16). Nel seguito, inoltre, risulterà che Beniamino corrisponde ad Ariete e Giuseppe alla costellazione dei Pesci. La narrazione biblica, quindi, potrebbe nascondere un velato accenno alla precessione degli equinozi: l’equinozio di primavera (= capodanno; simbolo della primogenitura/preminenza) si trasferì dal Toro in Ariete e poco dopo nei Pesci.
Un passaggio diretto da Saul a un re efraimita è in conflitto col racconto biblico dei regni di Davide e Salomone, ma trova un supporto nel recente e controverso libro dell’archeologo Israel Finkelstein.
Levi e Simeone: i Gemelli
I due figli successivi, Levi e Simeone, ricevono una profezia unica, in cui viene sottolineato il loro carattere violento, dimostrato nella vendetta dell’oltraggio subìto dalla loro sorella Dina e motivo di rimprovero da parte di Giacobbe (Genesi 34, 30). I due fratelli, inoltre, sono accomunati dal destino dei loro discendenti di disperdersi nel territorio delle altre tribù.
5 Simeone e Levi sono fratelli, strumenti di violenza sono i loro coltelli.
6 Nel loro conciliabolo non entri l’anima mia, al loro convegno non si unisca il mio cuore,
perché nella loro ira hanno ucciso gli uomini e nella loro passione hanno mutilato i tori.
7 Maledetta la loro ira, perché violenta, e la loro collera, perché crudele!
Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele.
Questa omologazione di Levi con Simeone è in profondo contrasto con le benedizioni di Mosé (Deuteronomio 33), in cui Simeone è completamente omesso, mentre sperticati elogi sono spesi per la tribù di Levi. Evidentemente, il narratore ha bisogno di costituire una coppia, da associare alla costellazione dei Gemelli. A questo scopo trascura anche il fatto che Simeone e Levi hanno altri dieci fratelli.
I “gemelli” del pantheon mesopotamico, Lugalgirra e Meslamtaea, sono due spiriti protettori, le cui statue venivano collocate ai due lati della porta d’ingresso e ciò spiega la collocazione dei Gemelli all'inizio dello zodiaco. Essi erano “gemelli” in quanto ciascuno dotato di due corpi uguali. Questa caratteristica li collega a Giano bifronte, anch'egli guardiano degli inizi e degli ingressi. Essi compaiono ben armati su amuleti neo-assiri, l’uno con mazza e ascia bipenne e l’altro con arco e frecce, ed erano invocati con magici scongiuri perché uccidessero i malvagi. C’è, quindi, una certa analogia con le armi di Levi e Simeone e con l’uccisione dei sichemiti. La profezia ha qualche elemento di contatto anche con i miti ellenistici, tanto tardivi da essere ancora sconosciuti ad Arato di Soli (III secolo a.C.). Non si tratta di un rapporto diretto, ma di una comune eredità di elementi mitologici mesopotamici.
La costellazione dei Gemelli è composta da due allineamenti paralleli di stelle. La profezia potrebbe essere un invito agli israeliti perché al posto delle divinità pagane vi vedessero le sagome dei coltelli dei due fratelli.
Giuda: il Leone
Segue poi la profezia per Giuda, il quarto fratello, cui corrisponde il quarto segno, il Leone, saltando il tardivo e poco luminoso segno del Cancro. Avendo utilizzato due patriarchi per i Gemelli, ora occorre attribuire due segni al solo Giuda in modo che il conto complessivo torni ancora. Il Cancro, quindi, è probabilmente adombrato nel bastone di comando posto fra le gambe di Giuda (versetto 49, 10) proprio come Presepe, il principale asterismo del Cancro, si trova quasi fra le zampe del Leone.
In questa profezia il riferimento al Leone è molto esplicito:
9 Un giovane leone è Giuda:
dalla preda, figlio mio, sei tornato;
si è sdraiato, si è accovacciato come un leone
e come una leonessa; chi lo farà alzare?
10 Non sarà tolto lo scettro da Giuda
né il bastone del comando tra i suoi piedi,
finché verrà colui al quale esso appartiene
e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli.
La corrispondenza di Giuda col Leone è in perfetto accordo con il destino regale della stirpe davidica e l’assegnazione della regalità al quarto fratello trova un fondamento giuridico nelle colpe dei tre fratelli maggiori.
Zabulon: la Vergine
Il segno della Vergine (Shala/Ishtar a Babilonia, Astarte a Canaan) è richiamato inserendo a questo punto la profezia su Zabulon, il decimo figlio, e trovando un pretesto per associarlo alla città fenicia di Sidone, i cui abitanti erano notoriamente devoti ad Astarte (1 Re 11, 5. 33; 2 Re 23, 13). A questo scopo il territorio della tribù viene esteso sino alla riva del Mediterraneo, nei pressi del moderno porto di Haifa ai piedi del Monte Carmelo (notizia assente nel testo biblico di Giosuè 19, 10-39) in modo da poter affermare che:
13 Zàbulon giace lungo il lido del mare
e presso l’approdo delle navi,
con il fianco rivolto a Sidone.
Anche la costellazione della Vergine si trova sul bordo di un “mare”: il cosiddetto “mare australe”, la regione del cielo in cui “nuota” il serpente marino Hydra e in cui più a sud “naviga” la costellazione della nave Argo (probabilmente in Mesopotamia la nave/demone Magilum).
La costellazione babilonese della Vergine era disposta perpendicolarmente alla costellazione odierna, perciò il corpo della dea era perpendicolare al mare australe proprio come il territorio di Zabulon è perpendicolare al mare Mediterraneo. La dea teneva in mano (e quindi davanti al proprio fianco) una spiga (la luminosissima stella Spica), che potrebbe corrispondere a Sidone.
Issacar: la Bilancia
Il segno doppio della Bilancia corrisponde al nono figlio, Issacar, paragonato a un asino “gravato dalle due ceste del basto” oppure:
14Issacar è un asino robusto,
accovacciato tra un doppio recinto.
15Ha visto che il luogo di riposo era bello,
che la terra era amena;
ha piegato il dorso a portare la soma
ed è stato ridotto ai lavori forzati.
Probabilmente la tribù di Issacar commerciava con l’entroterra le merci trasportate via mare da Zabulon e l’asino è il simbolo di questa funzione. Questa collaborazione fra il commercio marino di Zabulon e quello carovaniero di Issacar è espressa più esplicitamente nella successiva benedizione di Mosé (Deuteronomio 33, 18-19), in cui Issacar con i suoi attendamenti procura “i tesori nascosti nella sabbia”, cioè forse le merci ottenute in scambio dagli arabi. L’accenno ai “lavori forzati”, assente nella benedizione deuteronomica, potrebbe riflettere solo il disprezzo per il lavoro sistematico da parte di chi vive di pastorizia e non implicare alcun assoggettamento di Issacar ai cananei.
Dan: lo Scorpione
La profezia su Dan, che ha sempre sconcertato i biblisti, recita:
17 Sia Dan un serpente sulla strada,
una vipera cornuta sul sentiero,
che morde i garretti del cavallo,
così che il suo cavaliere cada all'indietro.
18 Io spero nella tua salvezza, Signore!
Essa si spiega con la profezia di Geremia 8, 16, in cui una visione di cavalli e di serpenti è associata al futuro ingresso dei Babilonesi nel territorio di Dan, la tribù più settentrionale costretta ad affrontare per prima con le sue scarse forze gli eserciti, che invadessero Israele. Giacobbe invoca che ciò non accada (“Io spero nella tua salvezza, Signore!”) e si augura che avvenga il contrario, cioè che Dan riesca da solo a sventare l'invasione. Dan, quindi, è paragonato a una serpe capace di arrestare e abbattere un nemico molto più grande di lei. Alla tribù di Dan appartenne anche Sansone, la cui capacità di procurare ai nemici danni molto superiori alle sue forze apparenti evoca la pericolosità della vipera.
L'immagine è analoga a quella associata dalla mitologia greca più antica allo scorpione che uccise Orione. Un’immagine basata su un dato astronomico: quando infatti la costellazione dello Scorpione sorge, Orione tramonta. Anche in Mesopotamia la costellazione di Orione rappresentava un guerriero ucciso (in accadico: šitaddalu). Essa può ben rappresentare le truppe assire o babilonesi che avrebbero aggredito Israele e di cui Giacobbe si augura la sconfitta.
La vipera di Dan, quindi, è la costellazione dello Scorpione, la cui coda ritorta potrebbe ben rappresentare un serpente, oppure Serpens, il serpente di Ofiuco, posto subito sopra lo Scorpione e sempre nella fascia dello zodiaco. In Mesopotamia al posto di Ofiuco c’era una costellazione di dèi col corpo di serpente (detti gli “dei seduti”). Certo sorprende che la profezia su Dan sia errata, benché probabilmente ex eventu. La Bibbia, però, è un libro di teologia, non di magia: intende mostrare quello che sarebbe accaduto se gli israeliti non si fossero dati all'idolatria!
Gad: il Sagittario
Le virtù guerriere di Gad, tribù che risiedeva oltre il Giordano e doveva contrastare le razzie dei nomadi, la assimilano al Sagittario, anche perché razzie e inseguimenti o ritorsioni dovevano aver luogo a dorso di cavallo o di cammello.
19 Gad, predoni lo assaliranno,
ma anche lui li assalirà alle calcagna.
L’iconografia di un centauro armato di arco e frecce risale al II millennio a. C. e rappresenta il dio Pabilsaĝ, “saccheggiatore di città”. Il versetto, inoltre, s’ispira alle scorrerie di Iefte il galaadita (Giudici 11, 3).
Aser: il Capricorno
Aser, invece, è lodata per la raffinatezza gastronomica, in linea con l’innata raffinatezza che tuttora in astrologia sembra distinguere i nati sotto il segno del Capricorno.
20 Aser, il suo pane è pingue:
egli fornisce delizie da re.
La tribù di Aser, dislocata in un fertile territorio fra i monti del Libano e la riva del mare, poteva godere anche in inverno dei proventi della pesca e della caccia; fonte d'invidia per le tribù che vivevano solo di pastorizia e in inverno soffrivano di carenza di cibo sino ai parti primaverili (Aser significa “felicità”, Genesi 30, 13).
Il binomio mare-monti rinvia al pesce-capra o capricorno, simbolo del dio babilonese Ea, signore delle acque salate (dove nuotano i pesci) e di quelle dolci (che sgorgano sulle montagne dove pascolano le capre). L’abbondanza e la varietà di cibo e la vicinanza delle ricche città fenice di Acco e Sidone, inoltre, potrebbero aver favorito lo sviluppo di una cucina più raffinata di quella delle altre tribù.
La necessità di utilizzare Aser per il Capricorno è uno dei motivi per cui l’agiografo ha dovuto associare Zabulon alla Vergine e a questo scopo estendere sino al mare il territorio della sua tribù (forse un altro motivo è che zbl è un epiteto ugaritico per il dio marino Yam).
Neftali: l'Aquario
Il testo masoretico di questa “benedizione”, seguito fedelmente da CEI 2008, è particolarmente misterioso:
21 Nèftali è una cerva slanciata;
egli propone parole d’incanto.
Resta interamente al lettore la difficoltà di immaginare una cerva parlante e di attribuirgli un significato simbolico da associare a Neftali. San Gerolamo, che traduceva analogamente l’ebraico con “cervus emissus”, utilizzò una diversa vocalizzazione per leggervi anche “ager irriguus” e interpretò il cervo come il Cristo e il campo fertile come il territorio di Neftali, che accolse con fervore la predicazione di Gesù (Matteo 4, 15). Molti biblisti moderni ipotizzano errori di vocalizzazione e trasformano le parole in cerbiatti, come fa la Bibbia Interconfessionale, o addirittura cambiano la cerva in un terebinto e le parole nei suoi virgulti.
Cervi e stambecchi popolavano il territorio della tribù di Neftali, il più vicino alle catene montuose del Libano e dell'Antilibano, ma non sarebbero stati scelti come simbolo tribale se non vi fosse stata la volontà di creare un rimando concettuale all'Aquario mesopotamico, il dio Ea, a cui erano sacri. La cerva di Neftali, inoltre, ricordava l’antica costellazione mesopotamica dello Stambecco e quella del Cervo vero e proprio, un paranatellon dell'Aquario.
Si osservi, inoltre, che perfino l'ager irriguus di San Gerolamo trova una collocazione in questa parte della volta celeste: la definizione si attaglia perfettamente alla costellazione mesopotamica del “campo coltivato”, corrispondente al quadrilatero di Pegaso e posta poco sopra le ultime stelle dell'Aquario. Si tratta verosimilmente di un caso fortuito, tuttavia è interessante osservare che per questo come per altri patriarchi diverse e contrastanti lezioni proposte dagli esegeti risultano compatibili con la stessa interpretazione zodiacale e non si può, quindi, escludere che si tratti di varianti antiche di uno stesso concetto.
Giuseppe: i Pesci
La costellazione dei Pesci è associata a Giuseppe, e più in generale a tutto il popolo di Israele, sin dall'antichità ed è incoraggiante ritrovare questa associazione semplicemente come conseguenza dell’aver rispettato l’ordine delle costellazioni zodiacali. I Pesci sono un segno doppio corrispondente al mese di Adar (doppio ogni due o tre anni) e analogamente a Giuseppe corrispondono due tribù, quelle di Efraim e di Manasse. Nell’iconografia ellenistica e tardobabilonese i due pesci sono collegati da due misteriose briglie, di cui, secondo alcuni esegeti, parla il profeta Osea, quando descrive il rapporto fra Dio e gli israeliti: “Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore” (Osea 11, 4).
Nella benedizione di Giuseppe, però, non compaiono pesci perché l’agiografo, nel timore di una sovrapposizione con i culti pagani siro-palestinesi, utilizza una tradizione mitologica diversa, più antica e probabilmente ancora viva nella cultura mesopotamica ma non nel culto:
22 Germoglio di ceppo fecondo è Giuseppe;
germoglio di ceppo fecondo presso una fonte,
i cui rami si stendono sul muro.
Quasi identica, ma più icastica, è la seguente traduzione: “Giuseppe è come un ramo carico di frutti: cresce vicino a una sorgente e i suoi grappoli si distendono sopra il muro”. La traduzione tiene conto del fatto che secondo i due targum il “ceppo fecondo” del “ramo Giuseppe” è una pianta di vite. L’immagine del regno di Israele (i cui re discendevano da Giuseppe) come una vite rigogliosa risale al profeta Osea (Os 10, 1); venne ripresa da Isaia, Geremia, Ezechiele e dai Salmi.
L’interpretazione astronomica è immediata: i due grappoli d’uva, che corrispondono a Efraim e Manasse, sono i Pesci della mitologia ellenistica e i rami ne sono le briglie. Esse partono dalla stella alfa della costellazione, detta Alrescha o Alrisha, che in arabo significa “nodo”, e che evidentemente corrisponde a Giuseppe, il “ceppo fecondo”, vicino alla sorgente. Alrescha, infatti, è posta appena al di sotto dell’eclittica, in quell'area dell’emisfero australe che già Arato di Soli chiamava “l’acqua”. Il “muro”, su cui si arrampica la vite, corrisponde verosimilmente alla base verticale della volta dell’emisfero boreale.
Questa traduzione, in cui Giuseppe è paragonato a una pianta, è messa in dubbio da alcuni biblisti, anche perché disomogenea dalle metafore zoologiche degli altri patriarchi. Nella mitologia mesopotamica, però, questo fatto non avrebbe costituito un problema: il re-palma-dadattero (lugal-giš-gišimmar), per esempio, è uno degli undici mostri (l'unico vegetale!) sconfitti da Ninurta e con lui associati ai dodici mesi dell’anno.
Si osservi, poi, che nella mitologia sumera esisteva proprio una “vigna del cielo”, la dea Geštinanna, figlia del dio Enki (l’odierno Acquario), anche se non ne è nota alcuna identificazione con una costellazione. Nella mitologia mesopotamica compaiono altri importanti alberi (o forse lo stesso albero con diversi nomi?), fra cui l'albero-mēsu, quello ḫuluppu e l’albero dell'Epopea di Erra. L'albero-mēsu sembra trovarsi proprio fra l'Acquario e l'Ariete, come la costellazione dei Pesci. Un testo sumero identifica il dio Enki/Ea simultaneamente con un albero-mēsu e una vigna.
"Magniloquente signore del cielo e della terra, autosufficiente, Padre Enki, generato da un toro, generato da un toro selvatico, amato da Enlil, la Grande Montagna, amato dal santo An, re, albero di meš piantato nell'Abzu, in aumento sopra tutte le terre; grande drago che sta in Eridug, la cui ombra copre il cielo e la terra, un boschetto di viti che si estende sulla Terra ... ". (Enki e l'ordine mondiale)
L'albero piantato nell'Abisso potrebbe essere la “briglia” e il pesce settentrionale: un allineamento quasi verticale (cioè in direzione sud-nord) di stelle, che ha origine in Alrescha, nell’emisfero boreale (l'abisso). La vigna, che si prolunga sul terreno (cioè in direzione estovest), sarebbe la “briglia” del pesce occidentale.
Analogamente quando Erra minaccia una catastrofe cosmica promette: “Estirperò la radice dell'albero e il suo germoglio non prospererà”. Dato che il taglio dell’albero comporta la caduta delle stelle, l’albero potrebbe benissimo essere radicato nell'emisfero australe e reggere la volta di quello boreale e quindi coincidere ancora con la “briglia” verticale, mentre il germoglio potrebbe essere il ramo quasi orizzontale. La verosimiglianza si accresce ricordando che anticamente la costellazione dei Pesci era ben più ampia perché il ramo nord comprendeva una buona parte delle stelle oggi nella soprastante costellazione di Andromeda, mentre quello ovest comprendeva le stelle del collo e della testa di Pegaso. La doppia decurtazione minacciata da Erra è forse rispecchiata anche dall'antichissimo racconto dell’abbattimento dell'albero ḫuluppu da parte di Gilgameš. La parte superiore dell'albero (“Crown - Cima” nella traduzione di Kramer) venne infatti segata e regalata a Inanna, che intendeva costruirsi un trono e un letto, mentre l’uccello Anzȗ, che aveva fatto il nido su un ramo, volò via. Analogamente la parte superiore della costellazione dei Pesci diventò una rappresentazione di Anunitum, la dea accadica corrispondente a Inanna, mentre l’estremità del ramo occidentale si trasformò nella costellazione della “Grande Rondine”.
Beniamino: l’Ariete
L’ultimo figlio è Beniamino, la cui tribù eccelleva per spietatezza e capacità guerresche (Giudici 3, 15-30; 20, 16) e perciò era paragonabile a “un lupo che sbrana”:
27 Beniamino è un lupo che sbrana:
al mattino divora la preda
e alla sera spartisce il bottino.
L'oracolo “la mattina divora la preda e alla sera spartisce il bottino” allude al beniaminita Saul, che vinse gli ammoniti sul far del mattino (1 Sam 11, 11) e la sera fu acclamato re. L'allusione diventa più chiara osservando che l’ebraico 'ad potrebbe essere tradotto non con “preda”, ma con “nemico” per cui la seconda riga diventerebbe “la mattina fa a pezzi il nemico”, testo più direttamente applicabile a Saul. All'equinozio di primavera l'Ariete era visibile solo all'alba e al tramonto; proprio i momenti in cui agisce il “lupo Beniamino” secondo Genesi 49, 27.
Nella cultura mesopotamica la “stella del lupo” è Alpha Trianguli, ai bordi della moderna costellazione dell'Ariete. Quest'ultima, inoltre, viene associata al dio Dumuzi (Tammuz), probabilmente coincidente col capo-pastore, che nell'Epopea di Gilgameš fu prima amato da Inanna e poi trasformato in lupo. La caratterizzazione, inoltre, di Beniamino come “lupo” e non come “guerriero” o come “leone”, richiama l'Ariete almeno per antitesi.
L’agiografo ha evitato di caratterizzare esplicitamente Beniamino come un ariete forse per evitare ogni possibile ambiguità con gli importanti dèi, che erano raffigurati con testa e corna d'ariete (fra cui Enki a Sumer e Ammon in Egitto). Anche quando la cultura ellenistica si impose perentoriamente l'ebraismo rifiutò il simbolo dell'Ariete e vi sostituì quello dell'agnello. La sua immagine e il nome ebraico taleh (טלה) compaiono negli zodiaci musivi di antiche sinagoghe palestinesi (IV-VI secolo).
4. Oblio e ricomparsa della metafora zodiacale
Accertata la verosimiglianza della metafora zodiacale sottintesa alle benedizioni di Giacobbe, occorre chiedersi come mai il suo ricordo sia stato dimenticato.
La crisi dello zodiaco dei patriarchi
La sostituzione di un paradigma iconografico con un altro è molto difficile da realizzare. Ci provò senza successo nel 1627 Julius Schiller con l’atlante stellare Coelum Stellatum Christianum, in cui ribattezzò non solo lo zodiaco, le cui costellazioni presero il nome dei dodici apostoli, ma anche le altre costellazioni e pianeti, che assunsero altri nomi dei due testamenti. La proposta di Genesi 49, poi, conteneva già al suo interno la causa della propria obsolescenza. Se, infatti, il Toro era il segno della primogenitura ed essa era passata di fatto a Giuseppe e poi da lui a Efraim, anche il simbolo del Toro doveva esser trasferito da Ruben a loro.
Questo trasferimento di simboli è già suggerito nelle stesse benedizioni di Giacobbe e forse per questo motivo il toro non viene nominato esplicitamente nella benedizione di Ruben. La questione compare con chiarezza nella benedizione di Simeone e Levi (Genesi 49, 6). Essi sono i due fratelli maggiormente responsabili per la vendita di Giuseppe ai mercanti madianiti (Genesi 37, 28): Ruben e Giuda, infatti, cercarono di moderare l'ira dei fratelli e tutti gli altri erano più giovani. Il loro delitto viene equiparato al togliere vigore a un toro (“subnervaverunt taurum” dice la Vetus Latina traducendo fedelmente la LXX e in accordo col targum di Gerusalemme). Una conferma indiretta che la colpa riguarda la vendita di Giuseppe si trova nella Vulgata (“suffoderunt murum”). Qui la colpa è apparentemente molto diversa: “hanno scalzato un muro”. Quale muro? Evidentemente quello su cui si appoggiano i rami e i grappoli di Giuseppe/vigna (Genesi 49, 22)! In entrambe le versioni la colpa è di aver operato, mettendo a rischio la nascita delle due tribù discendenti da Giuseppe. La metafora del toro, poi, è nuovamente sottintesa nel versetto 23: Giuseppe è stato tormentato dai fratelli, come un toro dai picadores, ma Dio lo ha difeso.
23 Lo hanno esasperato e colpito,
lo hanno perseguitato i tiratori di frecce.
24 Ma fu spezzato il loro arco,
furono snervate le loro braccia
per le mani del Potente di Giacobbe,
per il nome del Pastore, Pietra d’Israele.
Mentre nel testo greco del v. 24, seguito dalla traduzione CEI 2008, l’azione di Dio consisterebbe nell'aver indebolito i fratelli, in quello ebraico (seguito da CEI 1974 e nella Bibbia Interconfessionale) Iddio avrebbe restituito a Giuseppe la capacità generativa liberandolo dalla schiavitù (“è rimasto intatto il suo arco”; in cui l'arco è metafora mesopotamica per il membro virile).
La brillante similitudine zodiacale di Genesi 49, dunque, è stata ottenuta al prezzo di ignorare il futuro ruolo fondamentale della tribù di Levi e di lasciare sottintesa la primogenitura di Giuseppe. Nella benedizione di Mosè vi si pone rimedio tessendo elogi dei Leviti (Deuteronomio 33, 8-11) e assegnando esplicitamente il simbolo del toro a Giuseppe: “Come primogenito di Toro, egli è d'aspetto maestoso e le sue corna sono di bufalo” (Deut. 33, 17).
Non è chiaro se le benedizioni di Mosè (Deut 33) possano essere considerate un nuovo zodiaco. Lo suggeriscono la caratterizzazione di Beniamino come un agnello sulle spalle del Pastore (Deuteronomio 33, 12) e di Dan come un leone, ma gli attributi degli altri fratelli sembrano molto vaghi: l’accenno alla morte potrebbe collegare Ruben allo Scorpione, la guerra unisce Giuda al Sagittario, le acque di Meriba per Levi ricordano l'Acquario, ma sembra mancare ogni indizio degli altri segni. Se originariamente il testo avesse inteso suggerire uno zodiaco, occorrerebbe supporre interventi successivi, che abbiano largamente offuscato l'impostazione iniziale. Più verosimilmente la costruzione di un diverso zodiaco risultò impossibile e il tema venne abbandonato a favore del tema della disposizione delle tribù attorno all'accampamento sinaitico (Numeri 2); una sorta di quadratura dello zodiaco, in cui tuttavia il testo biblico mostra una sorprendente reticenza a dichiarare quali fossero gli emblemi delle tribù. Notizie più ampie sono date in appendice.
Lungo questa linea di abbandono di nuove proposte di iconografia zodiacale si colloca anche l'utilizzo del Toro come semplice simbolo di una primogenitura condivisa. Se in Deuteronomio, Giuseppe era detto “primogenito di toro”, anche Giacobbe doveva essere “toro”, conseguenza del resto del suo acquisto della primogenitura (Genesi 25, 33). Tutto Israele, a sua volta, era discendente di Giacobbe e primogenito fra i popoli (Esodo 4, 22). Esso, quindi, aveva su di sé la benedizione dei primogeniti e “Dio, che lo ha fatto uscire dall'Egitto, è per lui come le corna del bufalo” (Numeri 23, 22; 24, 8).
Nel tempio di Salomone furono realizzati dodici tori di bronzo (1Re 7, 25), disposti lungo i lati di un quadrato, tre per lato, come le tribù degli Israeliti attorno all'accampamento nel Sinai (Numeri 2). I dodici tori reggevano una gigantesca conca di bronzo, detta “mare”, proprio perché simbolo del Mar Rosso. I tori sottostanti, quindi, rappresentano le dodici tribù, che lo stanno attraversando, dirette sin da allora verso il Tempio (Esodo 15, 13). La purificazione dei sacerdoti, obbligatoria prima di salire al Santo o all'altare dei sacrifici (Esodo 30, 19-20), era memoria del passaggio nel Mar Rosso prima dell'ascesa al Sinai.
Le difficoltà insite nello zodiaco di Giacobbe e soprattutto il prevalere della cultura ellenistica su quella mesopotamica (in campo sia religioso sia astrologico) sono il motivo per cui il significato delle benedizioni di Giacobbe si perse gradualmente. La loro funzione demitizzante era stata portata a compimento e con il tramontare del pantheon mesopotamico diventarono sempre meno comprensibili, oltre che inutili.
L'idea di una corrispondenza fra i patriarchi e le costellazioni dello zodiaco rimase, ma forse solo globalmente fra le dodici tribù del popolo eletto e lo zodiaco ellenistico (senza cioè attribuire le singole tribù a una specifica costellazione). La presenza, appunto, di zodiaci musivi in diverse sinagoghe palestinesi tardo antiche potrebbe rispecchiare proprio questa concezione dello zodiaco come simbolo del popolo eletto.
Gli zodiaci musivi delle sinagoghe palestinesi (IV-VI secolo)
Dopo la scoperta dei magnifici mosaici delle sinagoghe di Hammath Tiberias (1921) e Beth Alpha (1928) sono state trovate in Palestina altre cinque sinagoghe, nel cui pavimento è rappresentato lo zodiaco. I mosaici scoperti nel 1965 a Ein Gedi (in cui le figure sono sostituite da scritte in ebraico) e nel 1993 a Zippori (o Sepphoris) sono abbastanza ben conservati, mentre pochi brandelli sopravvivono a Na'aran, Sussiya e Usifiyya. Meno decifrabile il mosaico di Japhia, interpretato da Goodenough come uno zodiaco, ma che potrebbe rappresentare l'accampamento delle tribù di Israele (Numeri 2).
Lo schema iconografico utilizzato è sempre lo stesso e sembra essere una rielaborazione di scuola antiochena di un tema tipico dell'arte romana, dove però è trattato con maggior variabilità. I simboli dello zodiaco formano una corona circolare, nel cui cerchio centrale è riprodotto il Sole, che percorre il cielo sulla sua quadriga. Lo zodiaco è inserito in una cornice quadrata, nei cui angoli quattro figure femminili rappresentano le stagioni.
Per gli ebrei osservanti è particolarmente imbarazzante trovare dentro una sinagoga la rappresentazione di uno zodiaco, possibile indizio di un cedimento al paganesimo o all'astrologia, e ancor più scoprirvi al centro una figura maschile, che porta la corona del Sol Invictus come Apollo-Helios. Il carro del Sole, poi, era uno degli oggetti di culto astrale con cui era stato profanato il tempio di Salomone prima della riforma di Giosia (2Re 23, 11). Perciò il significato simbolico di questi mosaici è stato oggetto di un intenso dibattito.
C’è un rapporto indubitabile fra segni zodiacali e mesi dell’anno, sia perché negli zodiaci di Ein Gedi e di Zippori (Sipphoris) a ogni simbolo zodiacale viene associato il nome del mese corrispondente, sia perché lo affermano Giuseppe Flavio (cfr. supra sez. 2) e il Sefer Yetzirah, un’antica fonte proto-cabalistica di incerta datazione (IV secolo?). In prima istanza, quindi, l’iconografia rappresenta il ciclo annuale del tempo: giorno, mesi e stagioni.
Lo zodiaco, però, è posto al centro della sinagoga nell'ambito di un programma iconografico costituito da temi di evidente significato religioso, come il sacrificio di Isacco e l’arca della Torah. La collocazione centrale dello zodiaco e l’assenza di immagini analoghe in contesti giudaici non sinagogali impediscono di attribuire a questa rappresentazione un valore soltanto decorativo, analogo alle rappresentazioni coeve dei “lavori dei mesi”. Mancano, inoltre, elementi che permettano di considerare questa iconografia una sorta di “calendario liturgico”, come vorrebbe un'importante corrente di archeologi israeliani, fra cui la stessa Hachlili. Numerosi studiosi, quindi, hanno attribuito a questi zodiaci musivi un significato simbolico di natura religiosa, seguendo diverse linee d’indagine.
Il programma iconografico complessivo, di cui lo zodiaco è il momento centrale, è perlopiù uno schema tripartito che sembra illustrare la storia della salvezza (passata, presente e futura): anzitutto le opere meritorie dei padri (Noè, Abramo, ecc.), poi la gloria di Dio (kabôd) al centro del cosmo e del popolo eletto (lo zodiaco), infine la meta ultima, il cielo metafisico, dove risiede la Parola di Dio attorniata da simboli escatologici. Entrando nella sinagoga si percorre proprio questa sequenza fino a giungere all'armadio della Torah, vertice della sinagoga e simbolo del cielo metafisico.
Diversi studiosi ipotizzano che l’iconografia zodiacale sia il prodotto di un giudaismo ellenizzato non rabbinico, ma legato alla casta sacerdotale, che dopo le rivolte giudaiche aveva stabilito il proprio centro in Galilea. Le testimonianze letterarie di questa importante corrente del giudaismo sono state ignorate dal giudaismo rabbinico, ma sono state parzialmente salvate dai cristiani. Oggi sono costituite dagli scritti di Filone d'Alessandria e di Giuseppe Flavio (di nobile famiglia sacerdotale) e da alcuni testi apocalittici sul tempio celeste (detti perciò “hekalot”). Queste fonti sono proprio le stesse da cui provengono scarne, ma utili, indicazioni sulla correlazione fra mesi/costellazioni zodiacali e tribù d'Israele, in parte utilizzate nella prima parte di questo lavoro. Esso, a sua volta, consente di proporre la precedente interpretazione del significato dei mosaici, modificando leggermente quanto pubblicato.
Con la diffusione dell'Islam il giudaismo ellenizzato scomparve e lo zodiaco non figurò più nell'iconografia religiosa ebraica. La supervisione sopra i dodici mesi dell’anno restò a dodici angeli collocati nel quinto cielo, i dodici “principi della gloria” disposti tre per lato come le tribù attorno all'accampamento sinaitico.
L'idea, però, di una corrispondenza fra patriarchi e mesi/costellazioni zodiacali ricomparirà molti secoli dopo nello Zohar, il famoso testo medievale. Il nuovo, diverso abbinamento sarà ottenuto banalmente facendo corrispondere ordinatamente i segni dello zodiaco ellenistico con i patriarchi elencati come sono citati in Numeri 2. La corrispondenza risultante è in contrasto sia con le benedizioni di Giacobbe, sia con qualsiasi considerazione astronomica, ma aveva il pregio di assegnare il primo mese (l'Ariete/Nisan), e quindi la preminenza, a Giuda, da cui discendevano gli esilarchi. Dallo Zohar tramite la tradizione cabalistica questa corrispondenza si diffuse in altri testi ebraici, fra cui commentari moderni di importanti testi antichi.
5. Conclusioni
L’ipotesi che le benedizioni di Giacobbe seguano una metafora zodiacale sembra confermata. Le motivazioni possono essere così riassunte:
1) Alcune benedizioni risultano incomprensibili al di fuori di questa metafora. Ne sono un esempio il doppio recinto di Issacar, il cavaliere che cade all'indietro di Dan e la cerva di Neftali.
2) Nella sequenza delle benedizioni l’ordine dei patriarchi è alterato, benché in Genesi essi siano sempre elencati seguendo un criterio chiaro. La necessità di facilitare la corrispondenza con i segni dello zodiaco costituisce una spiegazione sufficiente delle modifiche qui rilevate.
3) Il testo biblico richiama talvolta le costellazioni con la stessa immagine, che viene loro associata dallo zodiaco greco e/o mesopotamico (è il caso per esempio del Toro e del Leone), ma altre volte ricorre ad immagini diverse, che però sono sempre compatibili con la stessa disposizione stellare: la doppia bisaccia o il doppio recinto dell'asino corrispondono ai due piatti della Bilancia; il corpo arrotolato di un serpente può ben essere la coda ritorta dello Scorpione; una cerva (priva dell'imponente palco di corna che caratterizza il maschio) è simile a uno Stambecco; la vigna di Giuseppe corrisponde alle briglie dei Pesci (costellazione allora ancora più estesa di quella odierna); la sagoma di un lupo non è troppo diversa da un ariete.
Alcuni indizi, fra cui la presenza della costellazione dello Stambecco e il fatto che il Toro sia ancora la prima costellazione, suggeriscono che le benedizioni di Giacobbe siano state redatte sulla falsariga di uno zodiaco mesopotamico molto antico. Dato che le conoscenze sulla mitologia astrale mesopotamica sono tuttora frammentarie, non si può escludere che da questa direzione provengano in futuro ulteriori spunti ermeneutici.
Il collegamento col pantheon mesopotamico di alcuni segni zodiacali, fra cui Gemelli, Sagittario, Vergine e Capricorno, è particolarmente noto, ma anche fra le immagini animali (toro, leone, asino, serpe/scorpione, cerva, lupo) o vegetali (la vigna di Giuseppe), molte richiamano mitologie babilonesi e intendono sostituirsi a esse.
La funzione, quindi, del capitolo 49 di Genesi è affine a quella del capitolo primo: togliere dal cielo gli dèi che affollavano lo zodiaco mesopotamico. Le costellazioni potevano restare le stesse, stabilite dagli astronomi mesopotamici e ormai utilizzate da tutti i popoli dell'antico Vicino Oriente, ma l’oggetto rappresentato doveva essere modificato, se necessario, per essere ideologicamente ammissibile per un popolo monoteista. Gli israeliti, contemplando il cielo, non dovevano leggervi presenze inquietanti, ma disegni simbolici, che, alludendo alle origini e al destino delle dodici tribù, confermavano l’elezione del popolo ebraico. Le immagini astrali potevano così diventare memoria etnica.
In breve:
- Il Toro dello zodiaco ebraico non doveva più ricordare Marduk o Anu, ma la perdita dei diritti di primogenitura di Ruben;
- la costellazione dei Gemelli non è una teofania ma l'immagine dei coltelli di Simeone e Levi e il ricordo della condanna della loro discendenza a disperdersi in mezzo al resto del popolo;
- la costellazione del Leone è memoria della promessa di dare il regno a un discendente di Giuda;
- la costellazione della Vergine (Ishtar) è memoria del successo marittimo promesso a Zabulon;
- la costellazione della Bilancia (tradizionalmente un attributo del dio Sole Shamash) ricorda l’impegno carovaniero di Issacar;
- lo Scorpione (la dea Ishhara) è sostituito dalla vipera, che rappresenta Dan;
- il Sagittario (il dio Pabilsag) è memoria del destino guerriero di Gad;
- il Capricorno (simbolo di Enki/Ea) ricorda il benessere di Aser;
- l'Acquario, il dio Ea, è stato sostituito dalla cerva/stambecco di Neftali;
- i Pesci (una costellazione molto tarda) sono sostituiti da immagini della crescita rigogliosa della stirpe di Giuseppe e del regno della stirpe di Efraim su Israele.
A latere dell’obbiettivo di ricondurre lo zodiaco a un’iconografia ebraica, si possono riconoscere due obiettivi secondari:
1) Fornire l'eziologia del destino regale della tribù di Giuda, basandolo sui demeriti dei primi tre patriarchi e sul testamento di Giacobbe;
2) Attribuire la prosperità plurisecolare delle tribù sorte da Giuseppe alla benedizione di Giacobbe e alla protezione divina, che aveva salvato Giuseppe dalle insidie di Simeone e Levi e aveva benedetto Efraim e Manasse con la pioggia, l'acqua dei pozzi, i parti del gregge e la fecondità dei campi.
Si comprende, allora, che anche episodi teologicamente irrilevanti del libro della Genesi, se non imbarazzanti, come l'affronto di Ruben o l'ira incontrollata di Levi e Simeone, siano narrativamente subordinati alle tesi eziologiche delle benedizioni di Giacobbe.
In conclusione l'opinione tradizionale secondo cui il testamento di Giacobbe “non ha alcun nesso evidente con il contesto, né alcun rapporto con il resto della narrazione” deve essere disattesa e analogamente priva di fondamento appare l'opinione che il corpo del poema sia molto più antico perfino di J, la più antica delle fonti bibliche. Il testamento non è un antichissimo “trovante” letterario arenatosi più o meno casualmente nel penultimo capitolo di Genesi; è parte organica di uno stesso disegno teologico ed eziologico, che racconta e reinterpreta la storia d'Israele dal punto di vista degli esilarchi babilonesi.
La scoperta di una similitudine zodiacale in Genesi fornisce ulteriori spunti all'attuale dibattito sulla revisione o l’abbandono dell’ipotesi documentaria.
APPENDICE
La quadratura del cerchio dello zodiaco
Come anticipato nel testo di questo articolo l'assegnazione del simbolo del Toro a Giuseppe e ai suoi figli sembra aver reso impossibile l'elaborazione di un nuovo schema zodiacale altrettanto elaborato come il precedente e capace di essere da tutti accettato. L'obbiettivo culturale e religioso della similitudine, inoltre, era stato superato con il prevalere dello zoroastrismo in Mesopotamia.
Mentre il cerchio è simbolo universale del cielo, il quadrato rappresenta la Terra: dal cerchio dello zodiaco si passò così al quadrato dell'accampamento di Numeri 2; dai segni zodiacali alle insegne delle dodici tribù.
La forma quadrilatera della dimora esodica (conservata nel successivo tempio salomonico) è la matrice della disposizione delle famiglie levitiche attorno ad essa durante gli accampamenti nel Sinai (Numeri 3) e della distribuzione delle dodici tribù degli israeliti attorno ai leviti (Numeri 2). Questa disposizione ha un interessante significato teologico.
L’accampamento è un quadrato, il cui lato misura dodici miglia: Giuda con Issacar e Zabulon si devono accampare a est, Ruben con Simeone e Gad a sud, Efraim con Manasse e Beniamino a ovest e Dan con Neftali e Aser a nord. L'assenza di Levi, che si trova ora al centro dell'accampamento per custodire la Dimora (la tenda di YHWH), ha reso possibile l'assegnazione di due postazioni diverse ai due figli di Giuseppe, in accordo con una norma sui primogeniti (Deuteronomio 21, 17), e perciò di un intero quadrante a Efraim e alle altre due tribù discendenti da Rachele.
Il criterio redazionale non sembra più essere quello astronomico, ma quello storicogeografico. L'accampamento riproduce una geografia idealizzata della Terra Promessa, in quanto le tribù di Aser, Neftali e Dan occuparono effettivamente il nord della Palestina, mentre Simeone e Gad si stabilirono al sud. La collocazione anche di Ruben al sud non corrisponde a quella assegnata da Giosuè (Giosuè 13), ma potrebbe corrispondere a una situazione successiva, verificatasi storicamente, o semplicemente supposta dall’agiografo, come conseguenza dell’invasione del territorio di Ruben da parte degli aramei (2 Re 10, 32-33). La direzione sud in questa pericope è detta dalla LXX “πρὸς λίβα” (= “verso le acque”, cioè verso il Nilo e il Mar Rosso). La nuova collocazione di Ruben, quindi, è anche in accordo col versetto Genesi 49, 4, che lo dichiara “bollente come l’acqua”. Ruben ha la guida del quadrante sud per la sua primogenitura. Dan è capo del quadrante nord per la sua anzianità e per le sue virtù guerresche (cfr. Gen 49, 17; Dt 33, 22), da confrontare con la propensione ad una pacifica prosperità dei fratelli minori Neftali e Aser (Genesi 49, 20-21; Deuteronomio 33, 23-25).
La collocazione di Levi al centro dell'accampamento corrisponde alla dispersione dei leviti nella terra promessa, essendo privi di un proprio territorio (Giosuè 21).
L'assegnazione del levante a Giuda, al quale sono affiancate le due altre tribù discendenti da Lia ed esenti da colpe nelle benedizioni di Giacobbe, e dell’occidente a Efraim è geograficamente insostenibile, ma potrebbe simboleggiare l'attesa del sorgere del Messia dalla tribù di Giuda e il tramonto del regno del nord.
Benché a prima vista totalmente diversi, l'ordinamento delle tribù attorno all'accampamento e quello dei patriarchi nelle benedizioni di Giacobbe sono sottilmente collegati; un rapporto affermato anche nel frammento di targum riportato nella sezione 2 di questo lavoro. Anche in Numeri 2, Ruben è seguito da Simeone, a Giuda seguono Issacar e Zabulon (ora però non più invertiti d'ordine fra loro), i figli di Giuseppe sono subito prima di Beniamino e Dan è con Aser e Neftali. Partendo dal quadrante sud e girando in senso antiorario si riottiene approssimativamente l'ordinamento zodiacale delle tribù. Le due descrizioni, perciò, non sembrano del tutto indipendenti nonostante lo sconvolgimento nell'assegnazione dei quadranti.
Si osservi, infine, che in questo testo biblico non si parla mai di costellazioni, però si dice che le tribù erano dotate ciascuna di un proprio emblema, senza specificare quale esso sia. Una reticenza curiosa, segno forse di un intervento censorio successivo. L'insegna della tribù principale di ogni quadrante costituisce lo stendardo sotto cui combattono le tre tribù di quel quadrante (Numeri 2, 3.10.18.25). L'emblema di questo stendardo, anch'esso non specificato nel testo biblico, è implicitamente assegnato ad una delle quattro direzioni cardinali.
Uno zodiaco dell’Era del Toro nel libro della Genesi
Alberto Peano Cavasola
Estratto
Le benedizioni di Giacobbe ai suoi dodici figli nel cap. 49 di Genesi seguono ordinatamente le caratteristiche delle costellazioni dello zodiaco con l’obbiettivo di togliervi le divinità mesopotamiche e ricondurlo a rappresentazione iconografica di simboli dei patriarchi o del destino della loro tribù. Non si tratta, però dello zodiaco ellenistico, ma di uno più antico, il cui primo segno è il Toro.
1. Introduzione
Le benedizioni di Giacobbe sono un testo misterioso, la cui traduzione solleva numerosi problemi filologici e che stimolò ripetutamente l’impegno ermeneutico dei Padri della Chiesa, fra cui Ippolito di Roma e Rufino di Concordia. Nonostante l’impegno, le difficoltà restarono e San Girolamo dovette concludere: “non ignoro plura in benedictionibus patriarcharum esse mysteria”. Anche oggi il testo è ritenuto “visibilmente corrotto in molti punti e spesso difficilmente comprensibile”.
Nel XVII secolo Athanasius Kircher tentò per primo di decodificare questo testo come una descrizione zodiacale, appoggiandosi anche su un abbozzo fantasioso di filologia egizia. Le sue ipotesi, sviluppate esclusivamente con riferimento ai segni zodiacali ellenistici, furono riprese da altri autori e sviluppate soprattutto da William Drummond nel 1811. La tesi, però, sembra essere caduta presto in discredito, tanto che non viene neppure menzionata nel classico testo di Maunder, un rinomato astronomo britannico degli inizi del Novecento. L’idea, tuttavia, ha continuato a solleticare gli studiosi, sia pure in forma dubitativa.
Al di là della maggiore o minore credibilità delle argomentazioni con cui la tesi era stata portata avanti dai diversi autori, la principale difficoltà era che l’interpretazione zodiacale sembrava associare al testo biblico un virtuosismo letterario fine a se stesso. Nel proporre, quindi, un’interpretazione completamente diversa, ma sempre di tipo zodiacale, è utile sottolineare che:
1) La proposizione di un diverso simbolismo zodiacale è parte significativa di un tema fondamentale del libro della Genesi: la revisione in chiave monoteistica di dati tradizionali della cultura mesopotamica (Creazione, Diluvio, ecc.). Secondo la maggior parte dei biblisti, per esempio, il primo capitolo della Genesi venne scritto durante l’esilio babilonese per controbattere il racconto della creazione da parte di Marduk, l’Enuma Elish, che veniva recitato pubblicamente a Babilonia durante la celebrazione del capodanno. Lo zodiaco era un altro dato della cultura babilonese inaccettabile sia per gli dèi che vi comparivano sia per il suo utilizzo astrologico.
2) Le “benedizioni di Giacobbe”, inoltre, si ricollegano al primo capitolo della Genesi per due temi importanti. Anzitutto la demitizzazione dello zodiaco corrisponde alla demitizzazione del Sole e della Luna, dei quali il racconto della Creazione chiarisce la natura creaturale (semplici lampade poste da YHWH per illuminare la Terra, Gen 1, 14-16) e non divina (gli dèi Shamash e Sin, adorati in Mesopotamia). La benedizione, poi, del nascente popolo eletto corrisponde a quella del Creato (Gen 1, 31). Questa corrispondenza è creata artificialmente dal versetto 49, 28 che definisce “benedizioni” un testo di natura sostanzialmente diversa. Come rilevato dagli esegeti solo per Giuseppe si ha una benedizione vera e propria. Le due pericopi, quindi, formano una “inclusione” astro-teologica che delimita e contribuisce a definire il significato complessivo del libro della Genesi.
3) La narrazione zodiacale fornisce il contesto e il linguaggio per spiegare la legittimità dei due regni israelitici, un tema sottinteso da altri episodi oscuri della storia dei patriarchi (Ruben e Bila, Giuda e Tamar, ecc.).
Occorre, infine, osservare che questo capitolo di Genesi segna l’avvio o almeno un primo importante snodo di un rapporto pluri-millenario fra il giudaismo e la simbologia associata allo zodiaco prima dalla civiltà mesopotamica, poi da quella ellenistica e infine da quella bizantina. Alcuni momenti di questo rapporto sono accennati nel seguito.
2. Costellazioni e tribù nel Pentateuco.
La similitudine fra i dodici figli di Giacobbe e le costellazioni dello zodiaco compare più o meno esplicitamente nelle opere di Giuseppe Flavio, quando egli commenta le norme di culto esodiche. Nelle Antichità Giudaiche, infatti, Giuseppe Flavio spiega che le dodici gemme del pettorale del sommo sacerdote, che corrispondono ai dodici figli di Giacobbe (Esodo 28, 21), sono anche in corrispondenza con le dodici costellazioni dello zodiaco e con i dodici mesi dell’anno. Nella Guerra Giudaica, poi, Giuseppe Flavio pone le costellazioni dello zodiaco anche in corrispondenza con i dodici pani offerti nel Santo del Tempio: una corrispondenza che può sembrare forzata, dato che Giuseppe Flavio non ne fornisce alcun chiarimento e l’unico collegamento sembrerebbe essere che lo zodiaco può essere simbolo anche del ciclo delle stagioni, mentre le messi e i pani ne sono il frutto.
Il pensiero, però, corre a Genesi, in cui il sogno di dodici covoni di grano precede quello di dodici stelle: due simboli equivalenti perché entrambi rappresentano i patriarchi (Gen 37, 5-11). Analogamente i pani (focacce rotonde del peso di circa 5 kg ognuna), che sono il prodotto finale di molti chicchi di grano, e le costellazioni, che sono costituite da molte stelle, sono in corrispondenza fra loro solo perché entrambi rappresentano le tribù di Israele, discese dai patriarchi. L’associazione fra tribù e costellazioni non è apertamente dichiarata in Genesi 49, ma risulta riconoscibile perché parte di un quadro simbolico introdotto nei precedenti capitoli di Genesi, sin da quando Dio promette che la discendenza di Abramo sarà numerosa come le stelle del cielo (Gen 15, 5). Successivamente ognuno dei dodici figli di Giacobbe è rappresentato da una stella (Gen 37, 9-10) ed è perciò naturale raggruppare le stelle dei loro discendenti in dodici costellazioni. L’assegnazione, quindi, di una costellazione ad ogni tribù in Genesi 49 è sviluppo coerente di questo stesso linguaggio simbolico; uno sviluppo temporalmente maturo dato che dopo poche generazioni Mosè poté constatare che la promessa ad Abramo si era già avverata (Dt 1, 10).
La scelta delle costellazioni dello zodiaco per le tribù israelite, lasciando le altre per i popoli pagani, si presenta naturale non tanto per la coincidenza col numero dei patriarchi, quanto perché sono quelle percorse dal Sole nel suo ciclo annuale. La scelta, quindi, intende suggerire che Israele è il popolo eletto. Questa interpretazione è confermata da un targum: “Il Santo, sia Egli benedetto, gli disse [ad Abramo]: proprio come lo zodiaco (mazalot) mi circonda e la mia gloria è al centro, così i tuoi discendenti si moltiplicheranno e si accamperanno sotto molte insegne con la mia shekinà nel centro”.
Nel primo membro di questa similitudine troviamo la metafora solare della gloria di Dio (kabôd), la cui caratteristica essenziale è lo splendore, lo sfolgoramento. Occorre, quindi, richiamare alla mente gli antichi zodiaci musivi, argomento sviluppato nel seguito, al cui centro si trova appunto un Sol invictus alla guida del carro solare; figura interpretata simbolicamente talvolta come Cristo nelle basiliche cristiane (come nel caso della necropoli vaticana) e talvolta come Metatron nelle sinagoghe.
Al secondo membro della similitudine, invece, abbiamo la dimora esodica (mishkan), sede della presenza divina (shekînah) e centro dell’accampamento degli Israeliti nel Sinai (Numeri 2). La similitudine mette di fatto in corrispondenza segni zodiacali e tribù, ma con la finezza teologica di evitare di collocare i patriarchi in cielo. L’attribuzione, infatti, di una costellazione dello zodiaco a ogni tribù di Israele non è solo un'analogia per mettere in rilievo la vicinanza di Dio a Israele: mira soprattutto a togliere dal cielo le divinità mesopotamiche, che lo affollavano per il sovrapporsi di diverse tradizioni mitologiche. Agli dèi tradizionali, come Ea (=Aquario), Ištar (=Vergine), Pabilsaĝ (=Sagittario), Išḫara (=Scorpione), ecc. si aggiunsero i demoni, ad esempio quelli sconfitti da Marduk nella saga babilonese della creazione, l'Enuma elish. Essi sono proprio dodici e Marduk: “ne ha fatto delle immagini e le ha poste all'ingresso dell’Abisso, un segno da non dimenticare mai” (tavoletta V,75-76). La sede, infatti, degli dèi era nell'emisfero boreale della volta celeste, fascia zodiacale compresa (salvo trasferimenti temporanei o definitivi nell'oltretomba, posto nell'emisfero australe). Subito attorno alla fascia zodiacale i Babilonesi collocarono costellazioni che rappresentavano i demoni. Immagini apotropaiche degli stessi demoni venivano collocate anche all'esterno di templi e palazzi mesopotamici.
3. Lo zodiaco di Giacobbe
Nel Genesi 49 di Genesi, Giacobbe, prossimo alla morte, raduna i suoi dodici figli per “annunziargli quello che accadrà loro nei tempi futuri”. Le profezie relative alle dodici tribù si susseguono con alcune variazioni d’ordine: piccole rispetto alla sequenza di nascita di ogni figlio (data nei capitoli 29, 30 e 35 di Genesi) e maggiori rispetto a quelle di Genesi 35, 23-26 e Genesi 46, 8-27, in cui sono elencate le madri seguite dai rispettivi figli; questo dettaglio costituisce un’arbitrarietà, che sorprese anche i Padri della Chiesa. Vengono elencati per primi tutti i figli di Lia (compresi i due nati in un secondo tempo), ma anteponendo Zabulon a Issacar. Seguono i quattro figli delle due schiave (che nacquero tutti prima di Issacar e Zabulon), ma con i figli di Zilpa in mezzo ai due di Bila e alterando così l’ordine di nascita di Neftali, che scende dal secondo al quarto posto. Restano ultimi i due figli di Rachele in accordo con l’ordine di nascita, ma non con alcun altro ordinamento biblico (Es.: Genesi 35, 23-26; Genesi 46, 8-27; Esodo 1, 2-5; 1 Cronache 2, 1-2, Deuteronomio 27, 12-13).
Queste variazioni segnalano la presenza di un criterio di ordinamento non dichiarato, che viene qui identificato nella necessità di rispettare l’ordine dei segni zodiacali. Le piccole modifiche nell'ordine dei patriarchi sono quelle indispensabili per stabilire un nesso fra vicende della vita di ogni patriarca o della storia della sua tribù e le caratteristiche del segno zodiacale a cui vien fatto corrispondere. Questo fatto non venne notato nei precedenti tentativi di stabilire una corrispondenza fra patriarchi e costellazioni, per cui gli accoppiamenti furono stabiliti in modo libero e spesso discorde fra le varie proposte, avvantaggiandosi di questo grado di arbitrarietà per ipotizzare corrispondenze più facilmente giustificabili.
Pur rispettando la sequenza dello zodiaco, però, occorre prendere come primo segno non l’Ariete ma il Toro, la costellazione nella quale si verificava il capodanno (= equinozio di primavera) nell'antichità più remota. A causa della precessione degli equinozi, il capodanno si spostò nella costellazione dell’Ariete verso la fine del III millennio a.C., ma la sequenza zodiacale originaria restò in uso, soprattutto in ambito astronomico. Essa, per esempio, compare nel frammento di Qumran 4Q318, che contiene una descrizione del percorso della Luna nella volta celeste a partire dall'inizio dell’anno (il cosiddetto “selendromion”). Dal testo si deduce che il capodanno (1° giorno del mese di Nisan) era ancora assegnato al Toro circa duemila anni dopo il termine di quell'era zodiacale. La questione ha sollevato un vivace dibattito.
I testi biblici, utilizzati per riportare e commentare le “profezie”, sono presentati nella traduzione CEI 2008, salvo diversa indicazione.
Ruben: il Toro
Il primogenito di Giacobbe, Ruben, viene ricordato dal padre solo per la sua esuberanza sessuale, una caratteristica che lo fa corrispondere al Toro. Dato che essa si è rivelata fuori controllo (Genesi 35, 22), gli viene preannunciata la perdita della preminenza sui fratelli:
3 Ruben, tu sei il mio primogenito,
il mio vigore e la primizia della mia virilità,
esuberante in fierezza ed esuberante in forza!
4 Bollente come l’acqua, tu non avrai preminenza,
perché sei salito sul talamo di tuo padre,
hai profanato così il mio giaciglio.
Benché l’assegnazione della costellazione del Toro a Ruben non sia esplicita, essa trova conferma nel targum dello pseudo-Gionata al secondo capitolo del Libro dei Numeri. Esso riporta una tradizione, secondo cui la tribù di Ruben avrebbe avuto inizialmente come emblema il Toro, ma Mosè ne avrebbe vietato l’utilizzo dopo la vicenda sinaitica del vitello d’oro. Da un lato, quindi, viene confermata l’interpretazione qui avanzata per Genesi 49, 3-4, dall'altro le motivazioni del cambiamento sono state modificate, mettendo in secondo piano la colpa di Ruben: un indirizzo comune ad altra letteratura rabbinica, che interpreta allegoricamente il racconto dell’incesto di Ruben.
Nel seguito Giacobbe disapprova anche Levi e Simone, perciò l’onore e il frutto della preminenza dovrebbero passare per anzianità al quarto figlio, Giuda, da cui, infatti, trae origine la dinastia davidica. Genesi, però, sviluppa anche il tema della predilezione di Giacobbe per Rachele e per i suoi figli: Beniamino e soprattutto Giuseppe, a cui sembrerebbe che venga trasferita la primogenitura:
26 Le benedizioni di tuo padre sono superiori
alle benedizioni dei monti antichi,
alle attrattive dei colli perenni.
Vengano sul capo di Giuseppe
e sulla testa del principe tra i suoi fratelli!
L’importanza di questa predilezione sta nella sua natura eziologica di “profezia” storicopolitica: dalla tribù di Beniamino, infatti, provenne Saul, il primo re d’Israele e Giuda. Alla tribù di Efraim, il figlio di Giuseppe prediletto da Giacobbe (Genesi 48, 17-19), appartenne (oltre a Giosuè) Geroboamo, il fondatore del regno secessionista d’Israele ben più ampio del regno di Giuda (1 Re 12, 20).
La riabilitazione talmudica di Ruben, che sembrerebbe rimettere in discussione la perdita della primogenitura e trovare conferma in Esodo 6, 14 e Numeri 26, 5, è verosimilmente originata sia dall'imbarazzo di attribuire un incesto a un proprio antenato sia dalla pessima fine della dinastia efraimita. Secondo il primo libro delle Cronache, invece, il trasferimento della primogenitura a Giuseppe è valido, benché non fosse stato ufficializzato (1 Cronache 5, 1); una tesi che riflette solo parzialmente la sottigliezza con cui il tema è trattato nella Genesi.
La mancata registrazione, affermata dal libro delle Cronache, implica la mancanza di un erede unico e quindi la legittimità di entrambi i regni israeliti; la validità del trasferimento sottolinea che il regno del Nord può legittimamente fregiarsi del nome di “regno di Israele”, perpetuando il nome di Giacobbe in accordo con la benedizione a Efraim e Manasse (Genesi 48, 16). Nel seguito, inoltre, risulterà che Beniamino corrisponde ad Ariete e Giuseppe alla costellazione dei Pesci. La narrazione biblica, quindi, potrebbe nascondere un velato accenno alla precessione degli equinozi: l’equinozio di primavera (= capodanno; simbolo della primogenitura/preminenza) si trasferì dal Toro in Ariete e poco dopo nei Pesci.
Un passaggio diretto da Saul a un re efraimita è in conflitto col racconto biblico dei regni di Davide e Salomone, ma trova un supporto nel recente e controverso libro dell’archeologo Israel Finkelstein.
Levi e Simeone: i Gemelli
I due figli successivi, Levi e Simeone, ricevono una profezia unica, in cui viene sottolineato il loro carattere violento, dimostrato nella vendetta dell’oltraggio subìto dalla loro sorella Dina e motivo di rimprovero da parte di Giacobbe (Genesi 34, 30). I due fratelli, inoltre, sono accomunati dal destino dei loro discendenti di disperdersi nel territorio delle altre tribù.
5 Simeone e Levi sono fratelli, strumenti di violenza sono i loro coltelli.
6 Nel loro conciliabolo non entri l’anima mia, al loro convegno non si unisca il mio cuore,
perché nella loro ira hanno ucciso gli uomini e nella loro passione hanno mutilato i tori.
7 Maledetta la loro ira, perché violenta, e la loro collera, perché crudele!
Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele.
Questa omologazione di Levi con Simeone è in profondo contrasto con le benedizioni di Mosé (Deuteronomio 33), in cui Simeone è completamente omesso, mentre sperticati elogi sono spesi per la tribù di Levi. Evidentemente, il narratore ha bisogno di costituire una coppia, da associare alla costellazione dei Gemelli. A questo scopo trascura anche il fatto che Simeone e Levi hanno altri dieci fratelli.
I “gemelli” del pantheon mesopotamico, Lugalgirra e Meslamtaea, sono due spiriti protettori, le cui statue venivano collocate ai due lati della porta d’ingresso e ciò spiega la collocazione dei Gemelli all'inizio dello zodiaco. Essi erano “gemelli” in quanto ciascuno dotato di due corpi uguali. Questa caratteristica li collega a Giano bifronte, anch'egli guardiano degli inizi e degli ingressi. Essi compaiono ben armati su amuleti neo-assiri, l’uno con mazza e ascia bipenne e l’altro con arco e frecce, ed erano invocati con magici scongiuri perché uccidessero i malvagi. C’è, quindi, una certa analogia con le armi di Levi e Simeone e con l’uccisione dei sichemiti. La profezia ha qualche elemento di contatto anche con i miti ellenistici, tanto tardivi da essere ancora sconosciuti ad Arato di Soli (III secolo a.C.). Non si tratta di un rapporto diretto, ma di una comune eredità di elementi mitologici mesopotamici.
La costellazione dei Gemelli è composta da due allineamenti paralleli di stelle. La profezia potrebbe essere un invito agli israeliti perché al posto delle divinità pagane vi vedessero le sagome dei coltelli dei due fratelli.
Giuda: il Leone
Segue poi la profezia per Giuda, il quarto fratello, cui corrisponde il quarto segno, il Leone, saltando il tardivo e poco luminoso segno del Cancro. Avendo utilizzato due patriarchi per i Gemelli, ora occorre attribuire due segni al solo Giuda in modo che il conto complessivo torni ancora. Il Cancro, quindi, è probabilmente adombrato nel bastone di comando posto fra le gambe di Giuda (versetto 49, 10) proprio come Presepe, il principale asterismo del Cancro, si trova quasi fra le zampe del Leone.
In questa profezia il riferimento al Leone è molto esplicito:
9 Un giovane leone è Giuda:
dalla preda, figlio mio, sei tornato;
si è sdraiato, si è accovacciato come un leone
e come una leonessa; chi lo farà alzare?
10 Non sarà tolto lo scettro da Giuda
né il bastone del comando tra i suoi piedi,
finché verrà colui al quale esso appartiene
e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli.
La corrispondenza di Giuda col Leone è in perfetto accordo con il destino regale della stirpe davidica e l’assegnazione della regalità al quarto fratello trova un fondamento giuridico nelle colpe dei tre fratelli maggiori.
Zabulon: la Vergine
Il segno della Vergine (Shala/Ishtar a Babilonia, Astarte a Canaan) è richiamato inserendo a questo punto la profezia su Zabulon, il decimo figlio, e trovando un pretesto per associarlo alla città fenicia di Sidone, i cui abitanti erano notoriamente devoti ad Astarte (1 Re 11, 5. 33; 2 Re 23, 13). A questo scopo il territorio della tribù viene esteso sino alla riva del Mediterraneo, nei pressi del moderno porto di Haifa ai piedi del Monte Carmelo (notizia assente nel testo biblico di Giosuè 19, 10-39) in modo da poter affermare che:
13 Zàbulon giace lungo il lido del mare
e presso l’approdo delle navi,
con il fianco rivolto a Sidone.
Anche la costellazione della Vergine si trova sul bordo di un “mare”: il cosiddetto “mare australe”, la regione del cielo in cui “nuota” il serpente marino Hydra e in cui più a sud “naviga” la costellazione della nave Argo (probabilmente in Mesopotamia la nave/demone Magilum).
La costellazione babilonese della Vergine era disposta perpendicolarmente alla costellazione odierna, perciò il corpo della dea era perpendicolare al mare australe proprio come il territorio di Zabulon è perpendicolare al mare Mediterraneo. La dea teneva in mano (e quindi davanti al proprio fianco) una spiga (la luminosissima stella Spica), che potrebbe corrispondere a Sidone.
Issacar: la Bilancia
Il segno doppio della Bilancia corrisponde al nono figlio, Issacar, paragonato a un asino “gravato dalle due ceste del basto” oppure:
14Issacar è un asino robusto,
accovacciato tra un doppio recinto.
15Ha visto che il luogo di riposo era bello,
che la terra era amena;
ha piegato il dorso a portare la soma
ed è stato ridotto ai lavori forzati.
Probabilmente la tribù di Issacar commerciava con l’entroterra le merci trasportate via mare da Zabulon e l’asino è il simbolo di questa funzione. Questa collaborazione fra il commercio marino di Zabulon e quello carovaniero di Issacar è espressa più esplicitamente nella successiva benedizione di Mosé (Deuteronomio 33, 18-19), in cui Issacar con i suoi attendamenti procura “i tesori nascosti nella sabbia”, cioè forse le merci ottenute in scambio dagli arabi. L’accenno ai “lavori forzati”, assente nella benedizione deuteronomica, potrebbe riflettere solo il disprezzo per il lavoro sistematico da parte di chi vive di pastorizia e non implicare alcun assoggettamento di Issacar ai cananei.
Dan: lo Scorpione
La profezia su Dan, che ha sempre sconcertato i biblisti, recita:
17 Sia Dan un serpente sulla strada,
una vipera cornuta sul sentiero,
che morde i garretti del cavallo,
così che il suo cavaliere cada all'indietro.
18 Io spero nella tua salvezza, Signore!
Essa si spiega con la profezia di Geremia 8, 16, in cui una visione di cavalli e di serpenti è associata al futuro ingresso dei Babilonesi nel territorio di Dan, la tribù più settentrionale costretta ad affrontare per prima con le sue scarse forze gli eserciti, che invadessero Israele. Giacobbe invoca che ciò non accada (“Io spero nella tua salvezza, Signore!”) e si augura che avvenga il contrario, cioè che Dan riesca da solo a sventare l'invasione. Dan, quindi, è paragonato a una serpe capace di arrestare e abbattere un nemico molto più grande di lei. Alla tribù di Dan appartenne anche Sansone, la cui capacità di procurare ai nemici danni molto superiori alle sue forze apparenti evoca la pericolosità della vipera.
L'immagine è analoga a quella associata dalla mitologia greca più antica allo scorpione che uccise Orione. Un’immagine basata su un dato astronomico: quando infatti la costellazione dello Scorpione sorge, Orione tramonta. Anche in Mesopotamia la costellazione di Orione rappresentava un guerriero ucciso (in accadico: šitaddalu). Essa può ben rappresentare le truppe assire o babilonesi che avrebbero aggredito Israele e di cui Giacobbe si augura la sconfitta.
La vipera di Dan, quindi, è la costellazione dello Scorpione, la cui coda ritorta potrebbe ben rappresentare un serpente, oppure Serpens, il serpente di Ofiuco, posto subito sopra lo Scorpione e sempre nella fascia dello zodiaco. In Mesopotamia al posto di Ofiuco c’era una costellazione di dèi col corpo di serpente (detti gli “dei seduti”). Certo sorprende che la profezia su Dan sia errata, benché probabilmente ex eventu. La Bibbia, però, è un libro di teologia, non di magia: intende mostrare quello che sarebbe accaduto se gli israeliti non si fossero dati all'idolatria!
Gad: il Sagittario
Le virtù guerriere di Gad, tribù che risiedeva oltre il Giordano e doveva contrastare le razzie dei nomadi, la assimilano al Sagittario, anche perché razzie e inseguimenti o ritorsioni dovevano aver luogo a dorso di cavallo o di cammello.
19 Gad, predoni lo assaliranno,
ma anche lui li assalirà alle calcagna.
L’iconografia di un centauro armato di arco e frecce risale al II millennio a. C. e rappresenta il dio Pabilsaĝ, “saccheggiatore di città”. Il versetto, inoltre, s’ispira alle scorrerie di Iefte il galaadita (Giudici 11, 3).
Aser: il Capricorno
Aser, invece, è lodata per la raffinatezza gastronomica, in linea con l’innata raffinatezza che tuttora in astrologia sembra distinguere i nati sotto il segno del Capricorno.
20 Aser, il suo pane è pingue:
egli fornisce delizie da re.
La tribù di Aser, dislocata in un fertile territorio fra i monti del Libano e la riva del mare, poteva godere anche in inverno dei proventi della pesca e della caccia; fonte d'invidia per le tribù che vivevano solo di pastorizia e in inverno soffrivano di carenza di cibo sino ai parti primaverili (Aser significa “felicità”, Genesi 30, 13).
Il binomio mare-monti rinvia al pesce-capra o capricorno, simbolo del dio babilonese Ea, signore delle acque salate (dove nuotano i pesci) e di quelle dolci (che sgorgano sulle montagne dove pascolano le capre). L’abbondanza e la varietà di cibo e la vicinanza delle ricche città fenice di Acco e Sidone, inoltre, potrebbero aver favorito lo sviluppo di una cucina più raffinata di quella delle altre tribù.
La necessità di utilizzare Aser per il Capricorno è uno dei motivi per cui l’agiografo ha dovuto associare Zabulon alla Vergine e a questo scopo estendere sino al mare il territorio della sua tribù (forse un altro motivo è che zbl è un epiteto ugaritico per il dio marino Yam).
Neftali: l'Aquario
Il testo masoretico di questa “benedizione”, seguito fedelmente da CEI 2008, è particolarmente misterioso:
21 Nèftali è una cerva slanciata;
egli propone parole d’incanto.
Resta interamente al lettore la difficoltà di immaginare una cerva parlante e di attribuirgli un significato simbolico da associare a Neftali. San Gerolamo, che traduceva analogamente l’ebraico con “cervus emissus”, utilizzò una diversa vocalizzazione per leggervi anche “ager irriguus” e interpretò il cervo come il Cristo e il campo fertile come il territorio di Neftali, che accolse con fervore la predicazione di Gesù (Matteo 4, 15). Molti biblisti moderni ipotizzano errori di vocalizzazione e trasformano le parole in cerbiatti, come fa la Bibbia Interconfessionale, o addirittura cambiano la cerva in un terebinto e le parole nei suoi virgulti.
Cervi e stambecchi popolavano il territorio della tribù di Neftali, il più vicino alle catene montuose del Libano e dell'Antilibano, ma non sarebbero stati scelti come simbolo tribale se non vi fosse stata la volontà di creare un rimando concettuale all'Aquario mesopotamico, il dio Ea, a cui erano sacri. La cerva di Neftali, inoltre, ricordava l’antica costellazione mesopotamica dello Stambecco e quella del Cervo vero e proprio, un paranatellon dell'Aquario.
Si osservi, inoltre, che perfino l'ager irriguus di San Gerolamo trova una collocazione in questa parte della volta celeste: la definizione si attaglia perfettamente alla costellazione mesopotamica del “campo coltivato”, corrispondente al quadrilatero di Pegaso e posta poco sopra le ultime stelle dell'Aquario. Si tratta verosimilmente di un caso fortuito, tuttavia è interessante osservare che per questo come per altri patriarchi diverse e contrastanti lezioni proposte dagli esegeti risultano compatibili con la stessa interpretazione zodiacale e non si può, quindi, escludere che si tratti di varianti antiche di uno stesso concetto.
Giuseppe: i Pesci
La costellazione dei Pesci è associata a Giuseppe, e più in generale a tutto il popolo di Israele, sin dall'antichità ed è incoraggiante ritrovare questa associazione semplicemente come conseguenza dell’aver rispettato l’ordine delle costellazioni zodiacali. I Pesci sono un segno doppio corrispondente al mese di Adar (doppio ogni due o tre anni) e analogamente a Giuseppe corrispondono due tribù, quelle di Efraim e di Manasse. Nell’iconografia ellenistica e tardobabilonese i due pesci sono collegati da due misteriose briglie, di cui, secondo alcuni esegeti, parla il profeta Osea, quando descrive il rapporto fra Dio e gli israeliti: “Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore” (Osea 11, 4).
Nella benedizione di Giuseppe, però, non compaiono pesci perché l’agiografo, nel timore di una sovrapposizione con i culti pagani siro-palestinesi, utilizza una tradizione mitologica diversa, più antica e probabilmente ancora viva nella cultura mesopotamica ma non nel culto:
22 Germoglio di ceppo fecondo è Giuseppe;
germoglio di ceppo fecondo presso una fonte,
i cui rami si stendono sul muro.
Quasi identica, ma più icastica, è la seguente traduzione: “Giuseppe è come un ramo carico di frutti: cresce vicino a una sorgente e i suoi grappoli si distendono sopra il muro”. La traduzione tiene conto del fatto che secondo i due targum il “ceppo fecondo” del “ramo Giuseppe” è una pianta di vite. L’immagine del regno di Israele (i cui re discendevano da Giuseppe) come una vite rigogliosa risale al profeta Osea (Os 10, 1); venne ripresa da Isaia, Geremia, Ezechiele e dai Salmi.
L’interpretazione astronomica è immediata: i due grappoli d’uva, che corrispondono a Efraim e Manasse, sono i Pesci della mitologia ellenistica e i rami ne sono le briglie. Esse partono dalla stella alfa della costellazione, detta Alrescha o Alrisha, che in arabo significa “nodo”, e che evidentemente corrisponde a Giuseppe, il “ceppo fecondo”, vicino alla sorgente. Alrescha, infatti, è posta appena al di sotto dell’eclittica, in quell'area dell’emisfero australe che già Arato di Soli chiamava “l’acqua”. Il “muro”, su cui si arrampica la vite, corrisponde verosimilmente alla base verticale della volta dell’emisfero boreale.
Questa traduzione, in cui Giuseppe è paragonato a una pianta, è messa in dubbio da alcuni biblisti, anche perché disomogenea dalle metafore zoologiche degli altri patriarchi. Nella mitologia mesopotamica, però, questo fatto non avrebbe costituito un problema: il re-palma-dadattero (lugal-giš-gišimmar), per esempio, è uno degli undici mostri (l'unico vegetale!) sconfitti da Ninurta e con lui associati ai dodici mesi dell’anno.
Si osservi, poi, che nella mitologia sumera esisteva proprio una “vigna del cielo”, la dea Geštinanna, figlia del dio Enki (l’odierno Acquario), anche se non ne è nota alcuna identificazione con una costellazione. Nella mitologia mesopotamica compaiono altri importanti alberi (o forse lo stesso albero con diversi nomi?), fra cui l'albero-mēsu, quello ḫuluppu e l’albero dell'Epopea di Erra. L'albero-mēsu sembra trovarsi proprio fra l'Acquario e l'Ariete, come la costellazione dei Pesci. Un testo sumero identifica il dio Enki/Ea simultaneamente con un albero-mēsu e una vigna.
"Magniloquente signore del cielo e della terra, autosufficiente, Padre Enki, generato da un toro, generato da un toro selvatico, amato da Enlil, la Grande Montagna, amato dal santo An, re, albero di meš piantato nell'Abzu, in aumento sopra tutte le terre; grande drago che sta in Eridug, la cui ombra copre il cielo e la terra, un boschetto di viti che si estende sulla Terra ... ". (Enki e l'ordine mondiale)
L'albero piantato nell'Abisso potrebbe essere la “briglia” e il pesce settentrionale: un allineamento quasi verticale (cioè in direzione sud-nord) di stelle, che ha origine in Alrescha, nell’emisfero boreale (l'abisso). La vigna, che si prolunga sul terreno (cioè in direzione estovest), sarebbe la “briglia” del pesce occidentale.
Analogamente quando Erra minaccia una catastrofe cosmica promette: “Estirperò la radice dell'albero e il suo germoglio non prospererà”. Dato che il taglio dell’albero comporta la caduta delle stelle, l’albero potrebbe benissimo essere radicato nell'emisfero australe e reggere la volta di quello boreale e quindi coincidere ancora con la “briglia” verticale, mentre il germoglio potrebbe essere il ramo quasi orizzontale. La verosimiglianza si accresce ricordando che anticamente la costellazione dei Pesci era ben più ampia perché il ramo nord comprendeva una buona parte delle stelle oggi nella soprastante costellazione di Andromeda, mentre quello ovest comprendeva le stelle del collo e della testa di Pegaso. La doppia decurtazione minacciata da Erra è forse rispecchiata anche dall'antichissimo racconto dell’abbattimento dell'albero ḫuluppu da parte di Gilgameš. La parte superiore dell'albero (“Crown - Cima” nella traduzione di Kramer) venne infatti segata e regalata a Inanna, che intendeva costruirsi un trono e un letto, mentre l’uccello Anzȗ, che aveva fatto il nido su un ramo, volò via. Analogamente la parte superiore della costellazione dei Pesci diventò una rappresentazione di Anunitum, la dea accadica corrispondente a Inanna, mentre l’estremità del ramo occidentale si trasformò nella costellazione della “Grande Rondine”.
Beniamino: l’Ariete
L’ultimo figlio è Beniamino, la cui tribù eccelleva per spietatezza e capacità guerresche (Giudici 3, 15-30; 20, 16) e perciò era paragonabile a “un lupo che sbrana”:
27 Beniamino è un lupo che sbrana:
al mattino divora la preda
e alla sera spartisce il bottino.
L'oracolo “la mattina divora la preda e alla sera spartisce il bottino” allude al beniaminita Saul, che vinse gli ammoniti sul far del mattino (1 Sam 11, 11) e la sera fu acclamato re. L'allusione diventa più chiara osservando che l’ebraico 'ad potrebbe essere tradotto non con “preda”, ma con “nemico” per cui la seconda riga diventerebbe “la mattina fa a pezzi il nemico”, testo più direttamente applicabile a Saul. All'equinozio di primavera l'Ariete era visibile solo all'alba e al tramonto; proprio i momenti in cui agisce il “lupo Beniamino” secondo Genesi 49, 27.
Nella cultura mesopotamica la “stella del lupo” è Alpha Trianguli, ai bordi della moderna costellazione dell'Ariete. Quest'ultima, inoltre, viene associata al dio Dumuzi (Tammuz), probabilmente coincidente col capo-pastore, che nell'Epopea di Gilgameš fu prima amato da Inanna e poi trasformato in lupo. La caratterizzazione, inoltre, di Beniamino come “lupo” e non come “guerriero” o come “leone”, richiama l'Ariete almeno per antitesi.
L’agiografo ha evitato di caratterizzare esplicitamente Beniamino come un ariete forse per evitare ogni possibile ambiguità con gli importanti dèi, che erano raffigurati con testa e corna d'ariete (fra cui Enki a Sumer e Ammon in Egitto). Anche quando la cultura ellenistica si impose perentoriamente l'ebraismo rifiutò il simbolo dell'Ariete e vi sostituì quello dell'agnello. La sua immagine e il nome ebraico taleh (טלה) compaiono negli zodiaci musivi di antiche sinagoghe palestinesi (IV-VI secolo).
4. Oblio e ricomparsa della metafora zodiacale
Accertata la verosimiglianza della metafora zodiacale sottintesa alle benedizioni di Giacobbe, occorre chiedersi come mai il suo ricordo sia stato dimenticato.
La crisi dello zodiaco dei patriarchi
La sostituzione di un paradigma iconografico con un altro è molto difficile da realizzare. Ci provò senza successo nel 1627 Julius Schiller con l’atlante stellare Coelum Stellatum Christianum, in cui ribattezzò non solo lo zodiaco, le cui costellazioni presero il nome dei dodici apostoli, ma anche le altre costellazioni e pianeti, che assunsero altri nomi dei due testamenti. La proposta di Genesi 49, poi, conteneva già al suo interno la causa della propria obsolescenza. Se, infatti, il Toro era il segno della primogenitura ed essa era passata di fatto a Giuseppe e poi da lui a Efraim, anche il simbolo del Toro doveva esser trasferito da Ruben a loro.
Questo trasferimento di simboli è già suggerito nelle stesse benedizioni di Giacobbe e forse per questo motivo il toro non viene nominato esplicitamente nella benedizione di Ruben. La questione compare con chiarezza nella benedizione di Simeone e Levi (Genesi 49, 6). Essi sono i due fratelli maggiormente responsabili per la vendita di Giuseppe ai mercanti madianiti (Genesi 37, 28): Ruben e Giuda, infatti, cercarono di moderare l'ira dei fratelli e tutti gli altri erano più giovani. Il loro delitto viene equiparato al togliere vigore a un toro (“subnervaverunt taurum” dice la Vetus Latina traducendo fedelmente la LXX e in accordo col targum di Gerusalemme). Una conferma indiretta che la colpa riguarda la vendita di Giuseppe si trova nella Vulgata (“suffoderunt murum”). Qui la colpa è apparentemente molto diversa: “hanno scalzato un muro”. Quale muro? Evidentemente quello su cui si appoggiano i rami e i grappoli di Giuseppe/vigna (Genesi 49, 22)! In entrambe le versioni la colpa è di aver operato, mettendo a rischio la nascita delle due tribù discendenti da Giuseppe. La metafora del toro, poi, è nuovamente sottintesa nel versetto 23: Giuseppe è stato tormentato dai fratelli, come un toro dai picadores, ma Dio lo ha difeso.
23 Lo hanno esasperato e colpito,
lo hanno perseguitato i tiratori di frecce.
24 Ma fu spezzato il loro arco,
furono snervate le loro braccia
per le mani del Potente di Giacobbe,
per il nome del Pastore, Pietra d’Israele.
Mentre nel testo greco del v. 24, seguito dalla traduzione CEI 2008, l’azione di Dio consisterebbe nell'aver indebolito i fratelli, in quello ebraico (seguito da CEI 1974 e nella Bibbia Interconfessionale) Iddio avrebbe restituito a Giuseppe la capacità generativa liberandolo dalla schiavitù (“è rimasto intatto il suo arco”; in cui l'arco è metafora mesopotamica per il membro virile).
La brillante similitudine zodiacale di Genesi 49, dunque, è stata ottenuta al prezzo di ignorare il futuro ruolo fondamentale della tribù di Levi e di lasciare sottintesa la primogenitura di Giuseppe. Nella benedizione di Mosè vi si pone rimedio tessendo elogi dei Leviti (Deuteronomio 33, 8-11) e assegnando esplicitamente il simbolo del toro a Giuseppe: “Come primogenito di Toro, egli è d'aspetto maestoso e le sue corna sono di bufalo” (Deut. 33, 17).
Non è chiaro se le benedizioni di Mosè (Deut 33) possano essere considerate un nuovo zodiaco. Lo suggeriscono la caratterizzazione di Beniamino come un agnello sulle spalle del Pastore (Deuteronomio 33, 12) e di Dan come un leone, ma gli attributi degli altri fratelli sembrano molto vaghi: l’accenno alla morte potrebbe collegare Ruben allo Scorpione, la guerra unisce Giuda al Sagittario, le acque di Meriba per Levi ricordano l'Acquario, ma sembra mancare ogni indizio degli altri segni. Se originariamente il testo avesse inteso suggerire uno zodiaco, occorrerebbe supporre interventi successivi, che abbiano largamente offuscato l'impostazione iniziale. Più verosimilmente la costruzione di un diverso zodiaco risultò impossibile e il tema venne abbandonato a favore del tema della disposizione delle tribù attorno all'accampamento sinaitico (Numeri 2); una sorta di quadratura dello zodiaco, in cui tuttavia il testo biblico mostra una sorprendente reticenza a dichiarare quali fossero gli emblemi delle tribù. Notizie più ampie sono date in appendice.
Lungo questa linea di abbandono di nuove proposte di iconografia zodiacale si colloca anche l'utilizzo del Toro come semplice simbolo di una primogenitura condivisa. Se in Deuteronomio, Giuseppe era detto “primogenito di toro”, anche Giacobbe doveva essere “toro”, conseguenza del resto del suo acquisto della primogenitura (Genesi 25, 33). Tutto Israele, a sua volta, era discendente di Giacobbe e primogenito fra i popoli (Esodo 4, 22). Esso, quindi, aveva su di sé la benedizione dei primogeniti e “Dio, che lo ha fatto uscire dall'Egitto, è per lui come le corna del bufalo” (Numeri 23, 22; 24, 8).
Nel tempio di Salomone furono realizzati dodici tori di bronzo (1Re 7, 25), disposti lungo i lati di un quadrato, tre per lato, come le tribù degli Israeliti attorno all'accampamento nel Sinai (Numeri 2). I dodici tori reggevano una gigantesca conca di bronzo, detta “mare”, proprio perché simbolo del Mar Rosso. I tori sottostanti, quindi, rappresentano le dodici tribù, che lo stanno attraversando, dirette sin da allora verso il Tempio (Esodo 15, 13). La purificazione dei sacerdoti, obbligatoria prima di salire al Santo o all'altare dei sacrifici (Esodo 30, 19-20), era memoria del passaggio nel Mar Rosso prima dell'ascesa al Sinai.
Le difficoltà insite nello zodiaco di Giacobbe e soprattutto il prevalere della cultura ellenistica su quella mesopotamica (in campo sia religioso sia astrologico) sono il motivo per cui il significato delle benedizioni di Giacobbe si perse gradualmente. La loro funzione demitizzante era stata portata a compimento e con il tramontare del pantheon mesopotamico diventarono sempre meno comprensibili, oltre che inutili.
L'idea di una corrispondenza fra i patriarchi e le costellazioni dello zodiaco rimase, ma forse solo globalmente fra le dodici tribù del popolo eletto e lo zodiaco ellenistico (senza cioè attribuire le singole tribù a una specifica costellazione). La presenza, appunto, di zodiaci musivi in diverse sinagoghe palestinesi tardo antiche potrebbe rispecchiare proprio questa concezione dello zodiaco come simbolo del popolo eletto.
Gli zodiaci musivi delle sinagoghe palestinesi (IV-VI secolo)
Dopo la scoperta dei magnifici mosaici delle sinagoghe di Hammath Tiberias (1921) e Beth Alpha (1928) sono state trovate in Palestina altre cinque sinagoghe, nel cui pavimento è rappresentato lo zodiaco. I mosaici scoperti nel 1965 a Ein Gedi (in cui le figure sono sostituite da scritte in ebraico) e nel 1993 a Zippori (o Sepphoris) sono abbastanza ben conservati, mentre pochi brandelli sopravvivono a Na'aran, Sussiya e Usifiyya. Meno decifrabile il mosaico di Japhia, interpretato da Goodenough come uno zodiaco, ma che potrebbe rappresentare l'accampamento delle tribù di Israele (Numeri 2).
Lo schema iconografico utilizzato è sempre lo stesso e sembra essere una rielaborazione di scuola antiochena di un tema tipico dell'arte romana, dove però è trattato con maggior variabilità. I simboli dello zodiaco formano una corona circolare, nel cui cerchio centrale è riprodotto il Sole, che percorre il cielo sulla sua quadriga. Lo zodiaco è inserito in una cornice quadrata, nei cui angoli quattro figure femminili rappresentano le stagioni.
Per gli ebrei osservanti è particolarmente imbarazzante trovare dentro una sinagoga la rappresentazione di uno zodiaco, possibile indizio di un cedimento al paganesimo o all'astrologia, e ancor più scoprirvi al centro una figura maschile, che porta la corona del Sol Invictus come Apollo-Helios. Il carro del Sole, poi, era uno degli oggetti di culto astrale con cui era stato profanato il tempio di Salomone prima della riforma di Giosia (2Re 23, 11). Perciò il significato simbolico di questi mosaici è stato oggetto di un intenso dibattito.
C’è un rapporto indubitabile fra segni zodiacali e mesi dell’anno, sia perché negli zodiaci di Ein Gedi e di Zippori (Sipphoris) a ogni simbolo zodiacale viene associato il nome del mese corrispondente, sia perché lo affermano Giuseppe Flavio (cfr. supra sez. 2) e il Sefer Yetzirah, un’antica fonte proto-cabalistica di incerta datazione (IV secolo?). In prima istanza, quindi, l’iconografia rappresenta il ciclo annuale del tempo: giorno, mesi e stagioni.
Lo zodiaco, però, è posto al centro della sinagoga nell'ambito di un programma iconografico costituito da temi di evidente significato religioso, come il sacrificio di Isacco e l’arca della Torah. La collocazione centrale dello zodiaco e l’assenza di immagini analoghe in contesti giudaici non sinagogali impediscono di attribuire a questa rappresentazione un valore soltanto decorativo, analogo alle rappresentazioni coeve dei “lavori dei mesi”. Mancano, inoltre, elementi che permettano di considerare questa iconografia una sorta di “calendario liturgico”, come vorrebbe un'importante corrente di archeologi israeliani, fra cui la stessa Hachlili. Numerosi studiosi, quindi, hanno attribuito a questi zodiaci musivi un significato simbolico di natura religiosa, seguendo diverse linee d’indagine.
Il programma iconografico complessivo, di cui lo zodiaco è il momento centrale, è perlopiù uno schema tripartito che sembra illustrare la storia della salvezza (passata, presente e futura): anzitutto le opere meritorie dei padri (Noè, Abramo, ecc.), poi la gloria di Dio (kabôd) al centro del cosmo e del popolo eletto (lo zodiaco), infine la meta ultima, il cielo metafisico, dove risiede la Parola di Dio attorniata da simboli escatologici. Entrando nella sinagoga si percorre proprio questa sequenza fino a giungere all'armadio della Torah, vertice della sinagoga e simbolo del cielo metafisico.
Diversi studiosi ipotizzano che l’iconografia zodiacale sia il prodotto di un giudaismo ellenizzato non rabbinico, ma legato alla casta sacerdotale, che dopo le rivolte giudaiche aveva stabilito il proprio centro in Galilea. Le testimonianze letterarie di questa importante corrente del giudaismo sono state ignorate dal giudaismo rabbinico, ma sono state parzialmente salvate dai cristiani. Oggi sono costituite dagli scritti di Filone d'Alessandria e di Giuseppe Flavio (di nobile famiglia sacerdotale) e da alcuni testi apocalittici sul tempio celeste (detti perciò “hekalot”). Queste fonti sono proprio le stesse da cui provengono scarne, ma utili, indicazioni sulla correlazione fra mesi/costellazioni zodiacali e tribù d'Israele, in parte utilizzate nella prima parte di questo lavoro. Esso, a sua volta, consente di proporre la precedente interpretazione del significato dei mosaici, modificando leggermente quanto pubblicato.
Con la diffusione dell'Islam il giudaismo ellenizzato scomparve e lo zodiaco non figurò più nell'iconografia religiosa ebraica. La supervisione sopra i dodici mesi dell’anno restò a dodici angeli collocati nel quinto cielo, i dodici “principi della gloria” disposti tre per lato come le tribù attorno all'accampamento sinaitico.
L'idea, però, di una corrispondenza fra patriarchi e mesi/costellazioni zodiacali ricomparirà molti secoli dopo nello Zohar, il famoso testo medievale. Il nuovo, diverso abbinamento sarà ottenuto banalmente facendo corrispondere ordinatamente i segni dello zodiaco ellenistico con i patriarchi elencati come sono citati in Numeri 2. La corrispondenza risultante è in contrasto sia con le benedizioni di Giacobbe, sia con qualsiasi considerazione astronomica, ma aveva il pregio di assegnare il primo mese (l'Ariete/Nisan), e quindi la preminenza, a Giuda, da cui discendevano gli esilarchi. Dallo Zohar tramite la tradizione cabalistica questa corrispondenza si diffuse in altri testi ebraici, fra cui commentari moderni di importanti testi antichi.
5. Conclusioni
L’ipotesi che le benedizioni di Giacobbe seguano una metafora zodiacale sembra confermata. Le motivazioni possono essere così riassunte:
1) Alcune benedizioni risultano incomprensibili al di fuori di questa metafora. Ne sono un esempio il doppio recinto di Issacar, il cavaliere che cade all'indietro di Dan e la cerva di Neftali.
2) Nella sequenza delle benedizioni l’ordine dei patriarchi è alterato, benché in Genesi essi siano sempre elencati seguendo un criterio chiaro. La necessità di facilitare la corrispondenza con i segni dello zodiaco costituisce una spiegazione sufficiente delle modifiche qui rilevate.
3) Il testo biblico richiama talvolta le costellazioni con la stessa immagine, che viene loro associata dallo zodiaco greco e/o mesopotamico (è il caso per esempio del Toro e del Leone), ma altre volte ricorre ad immagini diverse, che però sono sempre compatibili con la stessa disposizione stellare: la doppia bisaccia o il doppio recinto dell'asino corrispondono ai due piatti della Bilancia; il corpo arrotolato di un serpente può ben essere la coda ritorta dello Scorpione; una cerva (priva dell'imponente palco di corna che caratterizza il maschio) è simile a uno Stambecco; la vigna di Giuseppe corrisponde alle briglie dei Pesci (costellazione allora ancora più estesa di quella odierna); la sagoma di un lupo non è troppo diversa da un ariete.
Alcuni indizi, fra cui la presenza della costellazione dello Stambecco e il fatto che il Toro sia ancora la prima costellazione, suggeriscono che le benedizioni di Giacobbe siano state redatte sulla falsariga di uno zodiaco mesopotamico molto antico. Dato che le conoscenze sulla mitologia astrale mesopotamica sono tuttora frammentarie, non si può escludere che da questa direzione provengano in futuro ulteriori spunti ermeneutici.
Il collegamento col pantheon mesopotamico di alcuni segni zodiacali, fra cui Gemelli, Sagittario, Vergine e Capricorno, è particolarmente noto, ma anche fra le immagini animali (toro, leone, asino, serpe/scorpione, cerva, lupo) o vegetali (la vigna di Giuseppe), molte richiamano mitologie babilonesi e intendono sostituirsi a esse.
La funzione, quindi, del capitolo 49 di Genesi è affine a quella del capitolo primo: togliere dal cielo gli dèi che affollavano lo zodiaco mesopotamico. Le costellazioni potevano restare le stesse, stabilite dagli astronomi mesopotamici e ormai utilizzate da tutti i popoli dell'antico Vicino Oriente, ma l’oggetto rappresentato doveva essere modificato, se necessario, per essere ideologicamente ammissibile per un popolo monoteista. Gli israeliti, contemplando il cielo, non dovevano leggervi presenze inquietanti, ma disegni simbolici, che, alludendo alle origini e al destino delle dodici tribù, confermavano l’elezione del popolo ebraico. Le immagini astrali potevano così diventare memoria etnica.
In breve:
- Il Toro dello zodiaco ebraico non doveva più ricordare Marduk o Anu, ma la perdita dei diritti di primogenitura di Ruben;
- la costellazione dei Gemelli non è una teofania ma l'immagine dei coltelli di Simeone e Levi e il ricordo della condanna della loro discendenza a disperdersi in mezzo al resto del popolo;
- la costellazione del Leone è memoria della promessa di dare il regno a un discendente di Giuda;
- la costellazione della Vergine (Ishtar) è memoria del successo marittimo promesso a Zabulon;
- la costellazione della Bilancia (tradizionalmente un attributo del dio Sole Shamash) ricorda l’impegno carovaniero di Issacar;
- lo Scorpione (la dea Ishhara) è sostituito dalla vipera, che rappresenta Dan;
- il Sagittario (il dio Pabilsag) è memoria del destino guerriero di Gad;
- il Capricorno (simbolo di Enki/Ea) ricorda il benessere di Aser;
- l'Acquario, il dio Ea, è stato sostituito dalla cerva/stambecco di Neftali;
- i Pesci (una costellazione molto tarda) sono sostituiti da immagini della crescita rigogliosa della stirpe di Giuseppe e del regno della stirpe di Efraim su Israele.
A latere dell’obbiettivo di ricondurre lo zodiaco a un’iconografia ebraica, si possono riconoscere due obiettivi secondari:
1) Fornire l'eziologia del destino regale della tribù di Giuda, basandolo sui demeriti dei primi tre patriarchi e sul testamento di Giacobbe;
2) Attribuire la prosperità plurisecolare delle tribù sorte da Giuseppe alla benedizione di Giacobbe e alla protezione divina, che aveva salvato Giuseppe dalle insidie di Simeone e Levi e aveva benedetto Efraim e Manasse con la pioggia, l'acqua dei pozzi, i parti del gregge e la fecondità dei campi.
Si comprende, allora, che anche episodi teologicamente irrilevanti del libro della Genesi, se non imbarazzanti, come l'affronto di Ruben o l'ira incontrollata di Levi e Simeone, siano narrativamente subordinati alle tesi eziologiche delle benedizioni di Giacobbe.
In conclusione l'opinione tradizionale secondo cui il testamento di Giacobbe “non ha alcun nesso evidente con il contesto, né alcun rapporto con il resto della narrazione” deve essere disattesa e analogamente priva di fondamento appare l'opinione che il corpo del poema sia molto più antico perfino di J, la più antica delle fonti bibliche. Il testamento non è un antichissimo “trovante” letterario arenatosi più o meno casualmente nel penultimo capitolo di Genesi; è parte organica di uno stesso disegno teologico ed eziologico, che racconta e reinterpreta la storia d'Israele dal punto di vista degli esilarchi babilonesi.
La scoperta di una similitudine zodiacale in Genesi fornisce ulteriori spunti all'attuale dibattito sulla revisione o l’abbandono dell’ipotesi documentaria.
APPENDICE
La quadratura del cerchio dello zodiaco
Come anticipato nel testo di questo articolo l'assegnazione del simbolo del Toro a Giuseppe e ai suoi figli sembra aver reso impossibile l'elaborazione di un nuovo schema zodiacale altrettanto elaborato come il precedente e capace di essere da tutti accettato. L'obbiettivo culturale e religioso della similitudine, inoltre, era stato superato con il prevalere dello zoroastrismo in Mesopotamia.
Mentre il cerchio è simbolo universale del cielo, il quadrato rappresenta la Terra: dal cerchio dello zodiaco si passò così al quadrato dell'accampamento di Numeri 2; dai segni zodiacali alle insegne delle dodici tribù.
La forma quadrilatera della dimora esodica (conservata nel successivo tempio salomonico) è la matrice della disposizione delle famiglie levitiche attorno ad essa durante gli accampamenti nel Sinai (Numeri 3) e della distribuzione delle dodici tribù degli israeliti attorno ai leviti (Numeri 2). Questa disposizione ha un interessante significato teologico.
L’accampamento è un quadrato, il cui lato misura dodici miglia: Giuda con Issacar e Zabulon si devono accampare a est, Ruben con Simeone e Gad a sud, Efraim con Manasse e Beniamino a ovest e Dan con Neftali e Aser a nord. L'assenza di Levi, che si trova ora al centro dell'accampamento per custodire la Dimora (la tenda di YHWH), ha reso possibile l'assegnazione di due postazioni diverse ai due figli di Giuseppe, in accordo con una norma sui primogeniti (Deuteronomio 21, 17), e perciò di un intero quadrante a Efraim e alle altre due tribù discendenti da Rachele.
Il criterio redazionale non sembra più essere quello astronomico, ma quello storicogeografico. L'accampamento riproduce una geografia idealizzata della Terra Promessa, in quanto le tribù di Aser, Neftali e Dan occuparono effettivamente il nord della Palestina, mentre Simeone e Gad si stabilirono al sud. La collocazione anche di Ruben al sud non corrisponde a quella assegnata da Giosuè (Giosuè 13), ma potrebbe corrispondere a una situazione successiva, verificatasi storicamente, o semplicemente supposta dall’agiografo, come conseguenza dell’invasione del territorio di Ruben da parte degli aramei (2 Re 10, 32-33). La direzione sud in questa pericope è detta dalla LXX “πρὸς λίβα” (= “verso le acque”, cioè verso il Nilo e il Mar Rosso). La nuova collocazione di Ruben, quindi, è anche in accordo col versetto Genesi 49, 4, che lo dichiara “bollente come l’acqua”. Ruben ha la guida del quadrante sud per la sua primogenitura. Dan è capo del quadrante nord per la sua anzianità e per le sue virtù guerresche (cfr. Gen 49, 17; Dt 33, 22), da confrontare con la propensione ad una pacifica prosperità dei fratelli minori Neftali e Aser (Genesi 49, 20-21; Deuteronomio 33, 23-25).
La collocazione di Levi al centro dell'accampamento corrisponde alla dispersione dei leviti nella terra promessa, essendo privi di un proprio territorio (Giosuè 21).
L'assegnazione del levante a Giuda, al quale sono affiancate le due altre tribù discendenti da Lia ed esenti da colpe nelle benedizioni di Giacobbe, e dell’occidente a Efraim è geograficamente insostenibile, ma potrebbe simboleggiare l'attesa del sorgere del Messia dalla tribù di Giuda e il tramonto del regno del nord.
Benché a prima vista totalmente diversi, l'ordinamento delle tribù attorno all'accampamento e quello dei patriarchi nelle benedizioni di Giacobbe sono sottilmente collegati; un rapporto affermato anche nel frammento di targum riportato nella sezione 2 di questo lavoro. Anche in Numeri 2, Ruben è seguito da Simeone, a Giuda seguono Issacar e Zabulon (ora però non più invertiti d'ordine fra loro), i figli di Giuseppe sono subito prima di Beniamino e Dan è con Aser e Neftali. Partendo dal quadrante sud e girando in senso antiorario si riottiene approssimativamente l'ordinamento zodiacale delle tribù. Le due descrizioni, perciò, non sembrano del tutto indipendenti nonostante lo sconvolgimento nell'assegnazione dei quadranti.
Si osservi, infine, che in questo testo biblico non si parla mai di costellazioni, però si dice che le tribù erano dotate ciascuna di un proprio emblema, senza specificare quale esso sia. Una reticenza curiosa, segno forse di un intervento censorio successivo. L'insegna della tribù principale di ogni quadrante costituisce lo stendardo sotto cui combattono le tre tribù di quel quadrante (Numeri 2, 3.10.18.25). L'emblema di questo stendardo, anch'esso non specificato nel testo biblico, è implicitamente assegnato ad una delle quattro direzioni cardinali.
In assenza di altre notizie bibliche sulle insegne delle dodici tribù e sugli stendardi dei quadranti è interessante esplorare le fonti del giudaismo tardo-antico e medievale. Gli unici stendardi giunti a noi da fonte antica sono quelli menzionati nel commento dello pseudo-Gionata sul simbolo assegnato a Ruben (cfr. sopra sezione 3). Si osservi che Ruben acquisisce l'insegna del cervo proprio perché in Numeri 2 gli è assegnato il quadrante sud, dove un tempo campeggiava il cervo/stambecco di Enki/Ea e successivamente la cerva di Neftali. Il targum dello pseudo-Gionata fornisce gli stendardi anche degli altri quadranti. Il volto di un “giovane uomo”, forse corrispondente a Metatron, è attribuito a Efraim. Dan, poi, ha ancora il serpente e Giuda il leone, ma si è persa ogni corrispondenza con l'astronomia, dato che, come si è detto, la sequenza delle tribù attorno all'accampamento è ruotata di 90° rispetto a quella zodiacale.
Una variante di questi stendardi fu proposta da Abraham ibn Ezra (XII sec.) nel suo Sefer ha-Yashar: un leone per Giuda (l'est), un toro per Efraim (l'ovest), un uomo per Ruben (il sud) e un'aquila per Dan (il nord). Questa soluzione è biblicamente ineccepibile, ma sempre in palese contrasto con l'astronomia. Le insegne del Leone e del Toro sono in direzioni diametralmente opposte, anche se nello zodiaco le due costellazioni si trovano in direzioni ortogonali. Questa proposta, probabilmente, deriva da un'interpretazione letterale, ma poco meditata, del tetramorfo di Ezechiele 1, 10. Dato che il cocchio divino proveniva da nord (Ezechiele 1, 4), il leone sulla destra era a est e il toro sulla sinistra era a ovest! Il testo di Ezechiele è incomprensibile perché i traduttori non ne hanno compreso le preoccupazioni teologiche. Non è possibile prendere Dio alle spalle, perciò il cocchio non può avere un davanti e un dietro e quindi le sue ruote, una dentro l'altra (cioè come “sferiche”), gli devono consentire di procedere in qualunque direzione senza voltarsi (Ezechiele 1, 16-17). La visione del cocchio, perciò è da 45° per non privilegiare alcuna faccia: il volto d'uomo e quello di leone sono entrambi a destra, mentre quello di toro e quello d'aquila sono entrambi a sinistra (così può essere tradotto il testo sia ebraico sia greco). Ezechiele, perciò, non è in contrasto con l'astronomia!
Il targum dello pseudo-Gionata attribuisce il cambiamento da Toro a Cervo al pericolo dell'idolatria. Probabilmente il commento è riduttivo: non solo il Toro, ma anche l'Ariete e il resto dello zodiaco furono a un certo momento considerati pericolosi e si preferì lasciar cadere nell'oblio la similitudine zodiacale di Genesi 49 e passare all'accampamento di Numeri 2, di cui, poi, addirittura si censurarono gli emblemi.
Una nuova proposta per le insegne di tutte le tribù si trova solo nel midrash del Libro dei Numeri (BeMidbar Rabbah). Le insegne del midrash e le corrispondenti fonti bibliche sono:
Una variante di questi stendardi fu proposta da Abraham ibn Ezra (XII sec.) nel suo Sefer ha-Yashar: un leone per Giuda (l'est), un toro per Efraim (l'ovest), un uomo per Ruben (il sud) e un'aquila per Dan (il nord). Questa soluzione è biblicamente ineccepibile, ma sempre in palese contrasto con l'astronomia. Le insegne del Leone e del Toro sono in direzioni diametralmente opposte, anche se nello zodiaco le due costellazioni si trovano in direzioni ortogonali. Questa proposta, probabilmente, deriva da un'interpretazione letterale, ma poco meditata, del tetramorfo di Ezechiele 1, 10. Dato che il cocchio divino proveniva da nord (Ezechiele 1, 4), il leone sulla destra era a est e il toro sulla sinistra era a ovest! Il testo di Ezechiele è incomprensibile perché i traduttori non ne hanno compreso le preoccupazioni teologiche. Non è possibile prendere Dio alle spalle, perciò il cocchio non può avere un davanti e un dietro e quindi le sue ruote, una dentro l'altra (cioè come “sferiche”), gli devono consentire di procedere in qualunque direzione senza voltarsi (Ezechiele 1, 16-17). La visione del cocchio, perciò è da 45° per non privilegiare alcuna faccia: il volto d'uomo e quello di leone sono entrambi a destra, mentre quello di toro e quello d'aquila sono entrambi a sinistra (così può essere tradotto il testo sia ebraico sia greco). Ezechiele, perciò, non è in contrasto con l'astronomia!
Il targum dello pseudo-Gionata attribuisce il cambiamento da Toro a Cervo al pericolo dell'idolatria. Probabilmente il commento è riduttivo: non solo il Toro, ma anche l'Ariete e il resto dello zodiaco furono a un certo momento considerati pericolosi e si preferì lasciar cadere nell'oblio la similitudine zodiacale di Genesi 49 e passare all'accampamento di Numeri 2, di cui, poi, addirittura si censurarono gli emblemi.
Una nuova proposta per le insegne di tutte le tribù si trova solo nel midrash del Libro dei Numeri (BeMidbar Rabbah). Le insegne del midrash e le corrispondenti fonti bibliche sono:
Il midrash Rabbah del libro dei Numeri è il più tardo (XII secolo?), ma contiene materiale più antico. Gli emblemi, infatti, di Efraim e Manasse compaiono in un brandello dei perduti mosaici della sinagoga di Japhia (VI secolo) e perciò i vessilli proposti dal midrash potrebbero risalire all'epoca tardo-antica.
La maggior parte degli emblemi non è di tipo astronomico, però lo sono quelli indispensabili per assegnare una direzione cardinale ai quattro lati dell’accampamento: il toro (Taurus), il leone (Leo), il serpente (Serpens) e l’accampamento di Gad (interpretabile come Pegaso ed equivalente all'Acquario) sono posti quasi ortogonalmente fra loro (Gad è dal lato di Ruben). Le direzioni cardinali conseguenti all'interpretazione astronomica di questi emblemi, però, risultano in conflitto con quelle assegnate dal testo biblico, guidate come si è detto da motivazioni storico-geografiche. La contraddizione potrebbe essere una delle cause della reticenza/censura manifestatasi nel testo biblico.
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